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Fiducia "Apocrifa"

di - giovedì 01 aprile 2021 ore 07:00

Quel giorno Socrate si sarebbe recato al tribunale.

Lungo la strada, accerchiato da seguaci che ne avrebbero dato la notizia alla comunità, i reporters di allora, dichiarò come tutti gli imputati modello di essere sereno e di “avere fiducia nella giustizia”. Si tratta, è ovvio, di un aneddoto apocrifo. E poco autentica (di dubbia sincerità) è anche questa frase destinata a diventare una formula rituale pronunciata sia da colpevoli, sia da innocenti, che avranno necessariamente aspettative opposte.

Doveva rispondere all’accusa di empietà e corruzione morale dei giovani.
Socrate non poteva sapere che ben oltre due millenni dopo con un tale capo d’accusa e con il medesimo metro di giudizio adottato, avrebbero rischiato di finire all’ergastolo, non vigendo la pena di morte, decine di intrattenitori del piccolo schermo chiamato televisione.
Dopo la condanna continuò ad avere “fiducia”, benché avesse validi motivi per ritrattarla, perché l’uomo era fatto così.

Avrebbe potuto scappare e sarebbe stato giustificato, ma con la sua morte ha insegnato meglio e per tutti i secoli a venire di più di quanto avrebbe potuto fare fuggendo. Così ha “condannato” i giudici al loro errore per sempre.
Un errore giudiziario, un classico.

Gesù poi non venne ucciso da dei banditi in un’imboscata, ma subì la sentenza di un tribunale. E ciò avrà pure un significato. Nella più sublime ed esemplare Storia del mondo.
Allora forse non converrebbe riporre tanta aprioristica e generosa fiducia se può dimostrarsi a volte infondata.

Nel passato, quanti innocenti sono stati giustiziati perché riconosciuti colpevoli in un processo? Untori, streghe, eretici, oppositori a vario titolo e più o meno pervicaci, ecc. Nel regno della fantasia l’errore giudiziario è perfino meno esiziale (a parte il Josef K. di Kafka): il conte di Montecristo, Dimitri Karamazov, ecc. Mentre Jean Valjean subiva “solo” un’abnorme sproporzione della pena.

Oggi, naturalmente noi abbiamo davvero fiducia nella giustizia (non incrinata dalle eccezioni, anche clamorose, ricordate), qui ci appuntiamo su un modo di dire in alcuni casi sospetto.

A quando, in un incauto pronunciamento verbale dal sen sfuggito, l’imputato facoltoso dirà: “macché fiducia! conto sull’avvocato?” (quel principe del foro che costa un patrimonio). Mentre il poveraccio raccomanderà al legale che si ritrova di rinunciare all’arringa, per non aggravare la propria posizione, e di rimettersi alla “clemenza della corte”, dimostrando così una vera, sia pure obbligata, fiducia.


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