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domenica 06 ottobre 2024

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O sonho de um prisioneiro

di - giovedì 19 ottobre 2023 ore 09:00

Da che parte sorge il sole? Dove tramonta? Sulle isole non si capisce bene, ci si confonde. Dal terrazzo, dove abitava ormai da qualche anno, però lo sapeva: sorgeva alle sue spalle, dietro la casa, dietro il Monte Verde, e tramontava in fondo alla baia. La baia del Porto Grande di Mindelo. Dalla verandina se ne stava a guardare lo spettacolo, finché l’ultimo raggio sul filo dell’orizzonte s’inabissava e rimaneva una luce rosata che veniva da dietro il mare, da dietro il mondo e a poco a poco, lentamente, si spengeva. E restava il ricordo del giorno e di tutti i giorni e chiedersi che vita abbiamo avuto, che valore, con quanto ardore abbiamo amato. Quella mattina era stata da poco l’alba e si era alzato prima del solito. Albe e notti variano per pochi segni. Già la notte aveva dormito poco e male, troppa tensione, troppi pensieri, andava incoaltrantro ad un giorno impegnativo, lo sentiva, lo sapeva. E non sapeva se era pronto, come sarebbe andata. L’attesa è lunga e il mio sogno di te non è finito.

Si fece un caffè lungo, spezzettò due biscotti. Bicchier d’acqua con bustina di magnesio per la memoria. Caffe amaro, magnesio dolce. Di nuovo! Quando era teso, confondeva i sapori. O così pensava, ma stamani non aveva voglia di pensarci e non c’era nemmeno tempo. Uscì. Vicino al Porto, in Piazza Dom Luís, stazionavano un paio di Hiace. Sono van che fungono da taxi collettivi, usati a Capo Verde, soprattutto dai turisti. A quell’ora non c’era nessuno, inutile aspettare altri viaggiatori, si mise d’accordo con un conducente che si mise d’accordo con l’altro, contrattò il prezzo e partì.

La Cadeia Civil da Ribeirinha, la Prigione di Mindelo, si presenta triste, grave, circondata da mura. Davanti ai cancelli fece fermare il taxi e liberò l’autista. Avrebbe potuto farlo aspettare, ma non sapeva quanto tempo e quanti soldi. Era già entrato in quella prigione: uno spiazzo sterrato e, in fondo, il penitenziario. Una visita. Parole di speranza. Ne era uscito con un’ansia di liberazione, questo effetto fanno le prigioni. Le carceri a Capo Verde hanno goduto di una fama ancora peggiore di quanto un carcere possa vantare. Durante il periodo coloniale e la dittatura di Salazar, il regime fascista portoghese ci esiliava i dissidenti: reclusi al confino dalla madre patria. Tragica storia quella del carcere di Tarrafal, sull’isola di Santiago. Dopo la pacifica Rivoluzione dei Garofani del 1974 e la caduta del fascismo è divenuto Museo della Resistenza. E il 5 Luglio 1975 Capo Verde è diventata una Repubblica indipendente.

Davanti all’ingresso del carcere c’è una piazza con una costruzione, una specie di torretta quadrata con degli archi ai quattro angoli e degli alberi. Il commissario si appoggia ad un muretto e aspetta. Aspetta e aspetta ancora. L’attesa lo stanca, è spossante. Un’attesa non annunciata sarebbe una sorpresa o almeno vorrebbe esserlo. Ma questa incertezza è inquietante. Estraniante. Quante ore sono passate? Due forse. Non ha guardato l’orologio. Nell’attesa indolente, ha perso la cognizione del tempo. Ripete a mente il verso finale di una poesia di Montale. Bisogna farlo per compagnia e contro la demenza senile: “mi sono alzato, sono ricaduto/ nel fondo dove il secolo è il minuto/ e i colpi si ripetono ed i passi,/ e ancora ignoro se sarò al festino/ farcitore o farcito. L’attesa è lunga,/ il mio sogno di te non è finito”. Chissà chi espia e chi tradisce, chi è recluso, dentro o fuori.

Ad un tratto un rumore brusco, di ferro e serrature, un cancello si apre. Dores esce, i soliti capelli scuri, corti, carnagione ancora più chiara, ancora più bella, appare magra, ha una borsa, si guarda intorno, come se aspettasse. Il commissario si fa avanti dal cono d’ombra degli alberi, alza un braccio per salutare, si chiede se sia il caso di chiamare, di rompere quel silenzio irreale, appena disturbato dal rumore del poco traffico della strada. E dalla strada arriva un’auto scura, una berlina di lusso. Famiglia benestante, origini portoghesi, studi in Italia, tesi di laurea su Eugenio Montale, legata letterariamente al commissario e chissà se sentimentalmente, incarcerata con l’accusa di omicidio di un poetastro ingravidatore di femmine, due, una delle quali le era particolarmente amica, Dores Carneiro Do Nascimento, rilasciata dopo le indagini della polizia e la confessione delle donne, si guardò in giro, come assente, entrò nell’auto e se ne andò.

Il commissario abbassò il braccio che gli era rimasto stupidamente alzato, deluso e amareggiato decise di tornare in centro a piedi. Come per punirsi, per espiare la sua stupidità. Ben gli stava, chissà cosa si era creduto, cosa si era messo in testa! Era sempre stato più bravo nelle indagini che riguardano il delitto e non l’amore, anche se non esiste peggior movente del cuore.

Si lasciò alle spalle il carcere e prese Rua dos Salesianos, piegò per Rua Cidade Invicta, poi perse il conto delle strade finché fu sull’Avenida 5 de Julho e arrivò dalle sue parti, nel Bairro del Porto. Il quartiere dove abitava, nel piccolo appartamento affittato, vista mare. Anzi, Oceano. L’Atlantico, dove navigano le isole dell’Arcipelago. Una bella camminata, ma doveva smaltire il dispiacere, che è aspro come il disamore. Nella sua bettola preferita della zona del Porto ordinò Cachupa con pesce e verdure, che accompagnò abbondantemente con una bottiglia di Chã, il generoso vino bianco dell’isola di Fogo, prodotto nel cratere del vulcano. Voleva sentirsi leggero, far girare la testa. La musica era una morna triste, Cesária Évora, “Cize” per gli amici: “Voz d’amor”. Dopo mangiato, sfilò dalla tasca un libriccino sgualcito: leggeva, rileggeva Tabucchi, “Il filo dell’orizzonte”, l’aveva negli occhi Spino, il protagonista, un’indagine inconcludente, come molte che anche a lui erano capitate, come la vita. Si trattenne nel locale finché il cameriere sorridendo, prese a spazzare intorno al suo tavolo e a passare il cencio e il commissario capì, ma già lo sapeva, che era l’ora di uscire. Di abbandonare quella zona di conforto.

Sconsolato s’incamminò lungo il vecchio Porto e si lasciò cadere sulla solita panchina. Il pomeriggio si era inoltrato nella sera. Le imbarcazioni prendevano il largo, alcune rientravano e tutto sembrava immutabile, fermo, calmo come il mare. Infinito, infinito, infinito… Legge ancora e si addormenta. Si sveglia: qualcuno gli sta togliendo il libro rimasto aperto sulle ginocchia. Mette un segno, lo chiude. Trasale! Un'ombra lunga è seduta accanto a lui: Dores! Ma non fa a tempo a proferire parola che lei, gli stampa un bacio sulla guancia. Forse mirava alla bocca e ha cambiato direzione all’ultimo? Forse no. Chissà.

⁃ Dores Carneiro do Nascimento!

⁃ Sempre io! In carne ed ossa!

⁃ Più ossa che carne, amica mia! Ti ero venuta a prendere all’uscita del carcere, il capitano Perez mi aveva avvisato che uscivi.

⁃ Sì, ti ho visto, scusa, ma sono venuti i miei, con quel ridicolo macchinone e dovevo andare con loro.

⁃ Ho capito…

In realtà avrebbe voluto dirle che non capiva, che avrebbe potuto anche ricambiare il saluto, che sembrava volesse ignorarlo. Ma non lo fece. Lo tenne per sé.

⁃ Commissario Nedo Favati! Finalmente ci incontriamo liberi e non ermetici, senza indizi montaliani, come stai?

⁃ Io bene, credo, a parte quando metto lo zucchero anziché nel caffè, nell’acqua con il magnesio, e succede sempre più spesso, e non me ne accorgo, e resto come assente, e dimentico i nomi, e una zia, la sorella del babbo, è morta di Alzheimer precoce, e ho paura che anch’io… Ma te piuttosto?

⁃ Che lagnone, commissario, non sembri proprio così, anzi! Io me la cavo, ma è stata dura…

E gli racconta ancora la storia del delitto, ma lei non ha parlato, la polizia ha rintracciato chi ha ucciso: due donne tradite e messe incinta da quel mascalzone. Due coltelli nel cuore, un delitto passionale, una vendetta. Lei aveva invitato tutti alla spiaggia di Salamansa per un chiarimento. Che stupida sono! Per questo l’ucciso aveva il suo biglietto in tasca, perciò l’accusa e il carcere. Una di queste donne era un’amica. Più che un’amica. L’amore, diceva lei, non conosce generi. E anche Dores era stata tradita. Ora l’amica era in prigione. Il commissario era inadeguato, in ritardo con i tempi, inadatto a capire tutto questo: mal celava il suo imbarazzo e soprattutto la sua gelosia. Dores se ne accorse, rise e lo baciò di nuovo. Questa volta sulla bocca. Questa volta era vero.

⁃ Sei un cretino, commissario!

⁃ Temo di sì! Me lo diceva sempre Pilar…

⁃ Lo so, ci conoscevamo…Ti manca?

⁃ Sì, innamorarsi da vecchi fa questo effetto.

⁃ Non sei vecchio, piantala o mi metto a declamare Montale…

⁃ Mi arrendo, anche se mi piacerebbe…

⁃ Sì? E allora: “Fu dove il ponte di legno/ mette a Porto Corsini sul mare alto”

E presero a recitare una strofa per uno di Dora Marcus e la poesia finisce che “è tardi, sempre più tardi”. E intanto era scesa la sera e tardi si era fatto davvero. E si erano accese le luci e si erano alzati gli Alisei e portavano in giro il rumore del mare, i gridi degli uccelli, le voci dei marinai e degli isolani e i versi di quella poesia e di tutte le poesie del mondo e che il mondo fosse migliore o solo più gentile per quei versi, quelle sillabe storte e per tutte le parole innamorate, di sale greco e di miele, silenziose e ronzanti come api. E mentre si tenevano per mano, il Commissario disse a Dores, come sei bella e se voleva salire da lui e lei rispose sì, con piacere.

I risvegli sono sempre complicati, imbarazzanti: difficile sentirsi a proprio agio, il commissario non era più abituato e non solo ai risvegli, ma, insomma, poteva andare peggio. Dores era di una bellezza non altèra, ma arrendevole, disarmante, una bellezza che lui non meritava, ma sperava che lei non se ne accorgesse. La colazione la fecero sul terrazzo, sotto la verandina e fu bravo a mettere lo zucchero nel caffè anziché nel magnesio. Si vede che l’amore, o qualcosa di molto simile all’amore che nessuno sa cosa sia, fa perdere la testa, ma non la memoria. Forse perché c’entra solo col cuore, strumento scordato già da sé.

⁃ Capelli neri e occhi azzurri!

⁃ Un dono di natura, un vezzo, specialità della casa: che poi sono blu, più che azzurri, mi pare.

⁃ I colori, come la bellezza, sono negli occhi di chi guarda e quando ti guardo mi viene in mente una vecchia canzone “Ojos Azules”: gli occhi azzurri non piangono, non piangere e non innamorarti, piangerai quando me ne andrò, quando non ci sarà più rimedio…

⁃ No!!!! Ancora con gli Inti Illimani stai? Non erano morti?

⁃ Ma, poveri…

⁃ Andiamo bene! Senti commissario…

⁃ Dores, io non sono più commissario da tanto tempo…

⁃ Non importa, fa simpatia e poi abbiamo risolto anche qualche caso insieme, ricordi? E quindi commissario, prima che vada e non ci sia più rimedio, mi porti al cinema?

⁃ Basta che non te ne vai davvero…

⁃ Che sei un cretino si era detto?

⁃ Sì, è stato già detto, grazie. Ma c’è un cinema a Mindelo? Tanti anni che sono qui e sapevo di un Cine Clube a Praia, una rassegna internazionale a Sal e di iniziative cinematografiche itineranti del Festival Sete Sóis Sete Luas, ma un cinema?

Il Cinema Éden Park fu costruito a Mindelo tra gli anni '30 e '60. Una facciata interessante, con tracce architettoniche coloniali e arabe. Sorge accanto a un piccolo complesso alberghiero, tipico degli anni '50 e '60: l'Hotel Porto Grande. Sia il cinema che l'hotel si trovano di fronte a Praça Nova, nella zona più elegante della città. Il parco Éden, nell'attuale Praça de Amílcar Cabral, risalente al 1945. Un pergolato dall'espressione leggera e vivace poggia sulla parete policroma, nascondendo parzialmente la facciata del cinema, che conserva un frontone con proiezioni tardo art déco. L'interno ricorda molto quello dei teatri classici, con poltroncine rosse, balconate e due gallerie per i familiari dei proprietari e i maggiorenti della città. È stato costruito da Cesar Marques da Silva, un capoverdiano, ed è ancora gestito dalla sua famiglia. È stato l'unico cinema “classico” in città. I film americani, ma anche i film europei e africani hanno avuto una grande influenza nella vita di Mindelo, così come nella vita delle persone e nella loro formazione culturale. La durata nel tempo del cinema Éden Park si deve all’impegno di Maria Luiza Marques da Silva, moglie del fondatore. Oggi purtroppo è chiuso per mancanza di fondi e di pubblico, ormai si sta soli e chi può preferisce guardarsi i film a casa. A volte viene aperto, solo in qualche occasione importante.

- È riaperto per una rassegna di fantascienza.

- Ti piace la fantascienza?

- Dopo Montale è la mia prefe. E a te piace?

- Anche prima di Montale.

- C’è un film che mi ero persa: “Interstellar” di Christopher Nolan, con la consulenza di Kip Thorne, il Nobel per la fisica, quello dei buchi neri, dei wormhole, i cunicoli spazio temporali. Ci sono scene spettacolari viste nei trailer, che voglio vedere al cinema, su grande schermo e anche Matthew McConaughey non è male…

- Ecco, lo sapevo…

- Ecco cosa? Cosa sapevi? Vogliamo riprendere il discorso sui cretini?

- No, no, lo rivedo volentieri...

- Meno male!

- Con te.

- Ancora meglio.

Alla scena dell’onda gigante, alta come una montagna, che si abbatte sugli astronauti in cerca di un nuovo mondo per la specie umana perché la Terra, depredata, sfinita, sta ormai morendo, Dores gli prese la mano. Gliela strinse e la stretta rimase fino alla fine del film. Lui avrebbe viaggiato così, su quelle sedie rosse del cinema, oltre il tempo, lo spazio, attraverso le stelle. “Do not go gentle into that good night,/ old age should burn and rave at close of day;/ rage, rage against the dying of the light.” La poesia di Dylan Thomas, citata nel film, in inglese è più bella per le rime e le assonanze. In una registrazione d’epoca l’autore la recita quasi come una canzone, un lamento. È la profezia dolorosa, l’invettiva terribile e meravigliosa, scritta per il padre morente. Alcuni traducono “gentle”, con lieve, leggero, ma con la leggerezza, che fa venire a mente Calvino, non c’entra niente: è più giusto “docile”, nel senso di calmo, deferente, accondiscendente. “Non andartene docile in quella buona notte,/ i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;/ infuria, infùriati, contro il morire della luce”. Ad essere volgari e prosastici, si potrebbe anche tradurre, a senso: incàzzati, contro l’oscurantismo! E ce ne sarebbe bisogno, anche sul nostro Pianeta, prima che lo lasciamo o per non doverlo fare. Non almeno per necessità o vergogna, semmai per l’indole a spostare in avanti l’orizzonte che abbiamo negli occhi.

Scorrevano i titoli di coda sulla colonna ossessiva del film, si accesero le luci, il commissario ritrasse la mano da quella di lei, gli spettatori si alzarono. Brusii, commenti.

- Dores, t’è piaciuto?

- A me sì, a te?

- Anche a me, l’avevo già visto, ma si lascia rivedere: le scene sono magnifiche, non è semplice comprendere tutti i meccanismi del viaggio spazio-tempo, ma il tema è intrigante e così il significato.

Poi lei aggiunse, provocandogli un sussulto, che la sua compagnia era stata la cosa migliore e gli prese il braccio. Il commissario le fece notare che c’era tutta la Mindelo benestante e intelligente e lei rispose: appunto, mettiamo in giro le chiacchiere! Ci saranno anche i tuoi. Bene, replicò lei. E di lì a poco salutarono il capitano Perez e gentile consorte, scambiandosi i convenevoli di rito e incrociarono altre personalità e persone, la maggior parte delle quali, seppur trapelando imbarazzo per la sua vicenda giudiziaria, conoscevano comunque più Dores del commissario. Poi fu la volta degli anziani genitori, Do Nascimento, freddini e irreprensibili. Sembrava l’annuncio di un fidanzamento in società. Il commissario se ne stava imbarazzato e impettito, Dores sorrideva divertita.

E però il commissario -occhi non da orizzonte, ma da poliziotto- in platea aveva visto una cosa. Nei giorni seguenti andarono al Mercato Municipale e alla Mostra di Arte Africana. Facevano coppia. E il commissario continuava a vedere qualcosa. Qualcuno li seguiva. Un’ombra. Ne era quasi certo. Ma non lo disse a Dores, non voleva spaventarla e poi forse era un’ubbìa: un senso di colpa per quell’immeritato, almeno per lui, scampolo di serenità. Felicità addirittura, se il fugace, inaffidabile termine non consigliasse un prudente e scaramantico utilizzo. Comunque andò a trovare Perez, al Comando di Polizia e, dopo le consuete strette di mano e cordialità, gliene parlò. Perez, in genere prodigo di consigli e attenzioni, prese nota, ma non disse granché. Strano! Si vede che era cosa di cui non preoccuparsi. Da stare senza pensiero. Forse si trattava di un pretendente invidioso oppure del controllo esoso di qualche familiare.

Forse. Tutto è in forse, pensava il commissario, come la mia memoria e la mia lucidità, la presenza e l’assenza. Forse. Mettere distanza dalle cose, questo era quello che aveva cercato di fare, fuggendo su quelle isole oceaniche e migrabonde. Una migrazione da sé stesso, da ciò che era stato. Incarichi, incombenze, imposizioni. Sentiva il morso, la lacerazione degli affetti strappati e la colpa. Ma li sapeva ormai maturi, indipendenti, rispondenti a se stessi. Aveva bisogno di leggerezza per sollevarsi l’anima. Doveva staccare la spina. Il mondo che era stato suo non gli corrispondeva più. Il peso dei ricordi e delle negligenti dimenticanze, il bene e il male, le ingratitudini, le offese, lo opprimevano. Via! Aria! Un altro mondo, ed essere dimenticato, dimenticarsi. Così quando la notte, polverosa di stelle, cadeva, sentiva il respiro della terra e la voce del mare e gli sembrava di essere parte di un altro universo dove perdersi, senza essere perso. E nonostante continuassero a chiamarlo commissario e nonostante, a volte, facesse ancora il poliziotto, non era più lui, era un altro da sé. Forse. O forse un altro di sé. E se tra la volta stellata scorgeva transitare il trenino dei satelliti in fila di Starlink, che permettevano di comunicare oltreoceano in rete, rimaneva incuriosito, estasiato, ma pensava: fanculo! Il futuro era in mano ai cartomanti. E allora da “cavaliere di spade” che era stato, ammesso lo fosse stato davvero, ora voleva essere “l’eremita”. Ma in verità detestava i social, le carte, i tarocchi. Cercava tra le stelle Pilar, che aveva conosciuto nella sua nuova vita, una stella creola, ancora luccicante memorie, che si era spenta. Arcani mondi, arcana felicità… Aveva bisogno di pace, in un mondo e in una vita in guerra, di un nuovo inizio. Di un piccolo aiuto. Tutto questo pensava, seduto sulla panchina con Dores accanto che gli teneva la testa sulla spalla e stavano in silenzio e si lasciavano vivere e si facevano compagnia. Pensavano insieme.

- Puta assassina! Mataste o meu pai! È colpa tua se mio padre è morto!

Questo grido li fece sobbalzare. L’ombra si materializzò nella fioca luce del lampione. Era un giovane, stringeva, quasi maldestramente, una pistola. Il commissario, perso nei pensieri, non si era accorto che erano stati attesi o seguiti. Si sentì ancora più vecchio e colpevole di quella negligenza, della sua debolezza e di non essere più capace di tutela. Si erano alzati in piedi e stavano lì, sotto tiro, indifesi, inermi.

- Eu entendo quem tu és! Ho capito chi sei, Dores non ha colpa, abbassa l’arma. Abaixe a arma!

Dores piangeva spaventata, desculpa, diceva, mi dispiace! Il commissario si mosse per abbracciarla, il ragazzo indietreggiò, la mano che sembrava tremasse. Sparò o forse il colpo partì. Forse. Il commissario si girò ancora. La pallottola lo prese nel braccio, l’attraversò, entrò nella carne. Mordeva, faceva male, usciva sangue. Poi un altro sparo. Strinse Dores a sé. Sentì di morire, di perdere tutto. Perse i sensi. La cognizione del dolore, della vita, del mondo.

Dores gli teneva la mano, come al cinema Éden, ma non erano al cinema e nemmeno in paradiso. Nedo! Gli sussurrava piano, mentre riprendeva conoscenza. Se lo chiamava Nedo e non commissario doveva essere grave. Era fasciato al braccio all’altezza della spalla e al torace, la ferita bruciava. Era attaccato a una flebo. Si trovava all’Ospedale di Mindelo, lo ragguagliò Dores, gli avevano estratto il proiettile dal torace, cucito il buco nel braccio. Si sono scomodati anche i miei, gli disse, ma stavi ancora dormendo. E lo ringraziò che le aveva salvato la vita e aveva gli occhi lucidi del colore del mare e lo baciò e gli disse, cretino. Potevi morire. E il commissario pensò che ancora la vita, la sua vita, serviva a qualcosa, a proteggere e amare, evitare la morte, però non lo disse. Lo tenne per sé.

Il capitano Perez entrò furente nella camera, contravvenendo alle raccomandazioni di medici e infermieri. Era con un sottoposto, lo indicava.

- Rodrigo Gomes Silva, ricordati questo nome, testone di un commissario! Gli devi, gli dovete, la vita. L’allievo ha buona mira, ha colpito alla mano il vostro assalitore, facendogli saltare la pistola. Questa volta almeno non c’è scappato il morto.

- Grazie, Rodrigo. Ci stavate sorvegliando?

- Certo, commissario, cosa credi, di essere poliziotto solo te? Da quando mi hai messo al corrente del tuo sospetto di essere seguiti. Per precauzione, quella che tu non hai usato. E meno male…

Perez, capoverdiano di origini spagnole, conosceva più lingue e sapeva l’italiano, più di quanto sapesse il portoghese il commissario che chiuse gli occhi, avvertì una fitta e non era solo la ferita. Era vero, era stato stupido, leggero, forse l’età, forse l’amore, stava per andarsene “docile” in quella buona notte. Dores respirava come se avesse il cuore in affanno, furente. Il capitano riprese.

- Ma possibile!? Sulla stessa panchina dove era già successo la stessa cosa, tempo fa. Peggio! Ti avevo avvertito: puoi essere un bersaglio facile per i malintenzionati. Meu Deus! Sembra un giallo scritto male!

- E forse lo è. Non c’è posto al mondo per i romantici…

- Sì, fai anche lo spiritoso, non c’è posto al mondo per gli abitudinari indolenti. Specie quelli che non ascoltano consigli.

Dores chiese come stava il ragazzo. È qui in ospedale ricoverato e piantonato, rispose Perez. Se la caverà, tentato omicidio, si farà un bel po’ di galera.

- È un ragazzo, capitano, la pistola sarà stata del padre, la impugnava anche male, ho avuto l’impressione che volesse minacciarci e sfogarsi e che il colpo sia partito per caso, al mio movimento.

- Sarà! Questo è il compito di giudici e avvocati. Rimettiti presto, commissario Favati, mi raccomando.

Uscì, accompagnato dall’allievo scelto che era rimasto quasi sull’attenti per tutto il tempo, senza un fiato, un movimento. Fiero.

Il Commissario si rimise prima del previsto, chiese e ottenne di essere dimesso, avrebbe continuato cure e riabilitazione a casa. Ma Dores gli aveva chiesto una cosa che anche lui aveva in animo di fare.

- Como vai, ragazzo, come va?

- La mano sta guarendo, spero di recuperare il movimento. Desculpa… Mi dispiace. Maledetta rabbia, non volevo.

- Parli italiano?

- Um pouco, mio padre me l’aveva insegnato, era un maestro di scuola, un poeta, un donnaiolo. O desespero da mãe, la disperazione della mamma. Ma avevamo solo lui… E voi come state?

- Ce la caviamo.

Dispiace anche a me, rispose Dores. Non avrei mai voluto. Come ti chiami? Carlito, rispose il ragazzo. Dispiace anche a noi, Carlito, fece il commissario, guarisci; dopo non sarà facile, se hai bisogno facci sapere. Anche per tua madre, disse Dores. E stai lontano dalle pistole, dammi retta, aggiunse il commissario.

Sì, era proprio un giallo scritto male. Il commissario e Dores camminavano lungo il porto. Questa volta era Dores a dargli il braccio, quello buono. Stavano in silenzio, le parole non sempre servono e a volte vengono male. Sono faticose, difficili a dirsi, come a scriversi. Trovare quelle giuste. Sono migliori i pensieri, che ognuno ha i suoi e restano nella testa e a volte speri che volteggino nell’aria e incrocino altri pensieri e sia la volta buona, che si trovino bene insieme. È così improbabile che avvenga nella vita! Amore e odio, pena e libertà. Dores pensava questo. Forse. E il commissario rifletteva sulla deriva delle parole: isolarsi, isolamento, isole che erano la deriva della sua vita o di quello che ne resta. Forse. Restavano il dolore e il piacere, la fatica e la voglia di esistere. Il vento leggero portò via quei pensieri e ricondusse i nostri pensatori alla realtà. E la realtà era che la panchina dov’erano diretti, nonostante tutto, perché tutto da lì era cominciato, non c’era più. C’erano dei segni in terra e un vuoto. Perez l’aveva fatta togliere. Nessun romanticismo per i poliziotti! Non ci resta che la verandina sul terrazzo, disse il commissario, vuoi venire? E Dores rispose, con piacere, Nedo. Perché mi chiami Nedo, che succede? Perché ti chiami così, cretino, succede questo: e lo baciò. Cretino di un commissario, aggiunse. Ah, allora! Tudo bem. Talvez, forse. Ma forse era un sogno, il sogno di un prigioniero.

Marco Celati

Pontedera, Ottobre 2023

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P.S. “Se inizierò a parlare di amore e stelle, vi prego: abbattetemi”. Charles Bukowski

Césaria Évora, “Voz d’amor”

https://youtube.com/watch?v=ESu4SuOtTCY&si=1g6vGYJpiN1Jh_vk

Dylan Thomas, “Non andartene docile in quella buona notte”. La poesia recitata dall’autore.

https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/dylan-thomas-non-andartene-docile-in-quella-buona-notte-do-not-go-gentle-into-that-good-night/

Eugenio Montale, “Il sogno di un prigioniero”

https://library.weschool.com/lezione/il-sogno-del-prigioniero-parafrasi-analisi-commento-3426.html


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