Pensieri brevi
di - domenica 19 dicembre 2021 ore 07:30
C’è di più che starsene ad ascoltare musica triste e messaggi commerciali e guardare gli alberi mossi dal vento di là dalla finestra. Fuori fa freddo, verrà a piovere. L’inverno arriva e un anno finisce. Aspetto la sera. C’è di più che coltivare malinconie discrete, ricordi affioranti dall’anima, vecchie storie dimenticate. Cordiali rancori e questo male diffuso. Scrivo ad un amico, da lontano mi risponde. Ho difficoltà con la tastiera, si blocca e non segue come dovrebbe le parole e i pensieri. La memoria è scarica e preannuncia spegnimento. Mi affretto a buttare giù un ultimo appunto, senza significato apparente, senza logica, prima di chiudere. I migliori spunti si perdono e così li trascrivo come vengono. Lo so, lo so che c’è di più che questo, ma non so più cosa, se devo essere sincero. Così non lo sarò – sincero voglio dire – e magari m’inventerò una storia, prima di mettere l’acqua al fuoco per la pasta. E la storia è questa: niente altro che queste lettere scritte in sequenza per ingannare l’ozio e sfuggirgli. Ma lo so che c’è altro. Qualcosa che preme nel petto senza uscire e che la testa non coglie, incapace com’è di sentire. Perché si scrive con la testa e con il cuore. Era la nostra storia, eravamo come eravamo. Chi può dirlo ormai? Alla fine non c’è stato altro, se non questo, questi anni che si sono succeduti. Questa musica che ascolto, interrotta da pubblicità, mentre fuori il vento muove gli alberi e fa freddo. L’inverno viene, arriva la pioggia, finisce l’anno. E l’acqua è sul fuoco. Prima che lo schermo si spenga e divenga buio, scrivo ancora qualcosa nel tablet.
Sarà una cena frugale, è avanzato del pesto. In frigo c’è ancora un po’ di vino. Un bicchiere di bianco. Il caffè della macchinetta. È tutto. Ma è come costruire niente con niente e sperare che ne esca qualcosa. Ricorda la vita nei momenti peggiori: ripetere, ripetere, ripetere. Ripetere ancora. Sono periodi brevi. Qualcos’altro ci sarà a tenere un filo, fissare un punto, dipanare una trama. Svolgere il compito che volemmo o ci fu dato. Ciò che dobbiamo o possiamo fare. A volte guardo le nostre foto, quelle di un tempo, dei cari immortalati prima e dopo di noi. I posti che visitammo nei giorni caldi e freddi o negli autunni, le primavere, i colori, la luce che c’era, le ombre della sera e mi commuovo. Basta poco oppure è quello il tanto che c’è. Che ci sia stato dato o ce lo siamo presi, che sia ciò che resta o ancora sarà. Fino a quando, fino a quando? L’insegnamento ricevuto dal padre in punto di morte è che è lunga la vita. E aveva meno dell’età che ho io. Sono anni che viviamo e chissà se basta. O forse fingiamo, ci inventiamo qualcosa che somiglia a vivere o prova a spiegarlo. A dargli un significato che non sia presunzione. La boria di essere, l’io che pensa, il noi. La specie.
A volte sono convinto che nemmeno conosco tutti gli errori che ho fatto. Compagni, le vostre bestemmie saranno perdonate! Sarebbe già tanto. Ricordare e dimenticare, scegliere per restare umani. Avere pietà ed orrore di sé, imparare a giudicare e perdonare se stessi. È un vizio riuscire a rendersi infelici. Frammenti della pre-storia, rinvenuti nel tempio, non compongono una storia, un quadro. Tessere senza mosaico. Al più hanno valore in sé, se di valore si tratta o solo di coraggio e incoscienza di gioventù. Ma forse è stato questo il loro fascino. Sono stanco, c’è stanchezza dopo tanto correre. Abbiamo consegnato il testimone da tempo e nessuno se ne accorge, riprende la corsa, imposta la curva. O così sembra. Ma forse è su un altro stadio che i giochi sono ripresi, si compiono e abbiamo sbagliato indirizzo. A ricordarsene, così fu anche per noi nell’altro secolo, giusto o breve che fosse.
C’è più che starsene qui con le mani in mano o chino a battere sulla tastiera parole senza senso: parole noiose per distrarre la noia. Che è un controsenso, alla fine. C’è di più. Che si fa? Andiamo a fare spesa? Usciamo, stasera? Farsi compagnia. Sarebbe meritevole rendere più leggera la vita, senza che divenga superficiale. È risaputo ed è già stato detto da autorevoli calligrafie: la leggerezza ed altre consegne per il futuro. Quae volumus, et credimus libenter et, quae sentimus ipsi, reliquos sentire speramus. Crediamo volentieri a ciò che vogliamo e speriamo che gli altri provino ciò che noi stessi proviamo. Questa invece ci viene dal passato. É nel “De bello civili” di Cesare. Addirittura! Non so consigliarti leggerezze, né qualcosa in cui credere o sperare. Se in te, se in altro. Una fede, un’idea. Non ho consegne da attendere o lasciare. Insegnamenti. Vorrei dirti, se puoi, metti mano al mondo, sii persona civile. Ma credi in quello che credi e ama quello che ami. La vita è una diaspora e non solo alla Terra occorre pace. Ci sarà qualcosa di più che questi alberi che scuotono i rami, questi pioppi argentati e le loro foglie cadenti, il famoso cane che latra, la luna che esce, gli uccelli che volano via come i giorni, l’anno che va, queste parole scritte e tutto il resto che deve essere ancora e magari non sarà. E tu cerca.
Marco Celati
Pontedera, Dicembre 2021
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Alla fine questo zibaldone è uscito in occasione delle festività. E non so quanto sia augurale, mi dispiace. Ma in fondo in qualche modo lo è: ognuno sente come sente e vive come vive e tutti noi cerchiamo la nostra strada. Tutti e ciascuno. Il finale “E tu cerca” è parente, molto alla lontana, di una poesia di Fortini e comunque ad essa ha l’ardire di ispirarsi, sia pur in forma prosastica. Si tratta di “Traducendo Brecht”, che parla di odio cortese e finisce così: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”. Certe parole costano fatica, ma leggere, scrivere, cercare: questo è il mio augurio. Di buone feste, di buon anno, ma prima ancora di buon Natale e poi l’Epifania. Auguri anche all’amico Libero Venturi che dice che per Natale si diventa tutti un po’ più cattivi, ma poi, se Dio vuole, passa. Il Natale è morto, evviva il Natale, conclude. Meno male tace: è un ateo impenitente, pur non privo di una sua religiosità. Sbaglia la Commissione Europea: si può, si deve dire buon Natale, lo dico anche da non credente. Laici sono tutti coloro che non sono il clero, credenti o meno, credenti o no. E che lo Stato sia laico, siamo d’accordo. Ma intanto, una parte di noi, “non possiamo non dirci cristiani” e poi, semmai, nel rispetto delle altre fedi, sarebbe bello sommare e non sottrarre le feste. Che so? Oltre alle festività laiche, la ricorrenza religiosa di “Id al adha”, Tabaski per i senegalesi, che ricorda, per gli islamici e non solo, il sacrificio di Abramo e Isacco o Ismaele che sia. I vegetariani – anche musulmani ce ne saranno – lo festeggeranno in forma simbolica o con “carne sintetica”, prodotta in laboratorio, dal sapore di agnello o montone, a piacere. E lo “Shabbat”, per gli ebrei il giorno di riposo e preghiera. Basterebbe non esagerare con ortodossie, integralismi e purezze assolute, fonti di tanti guai. Noi avevamo il Sabato fascista, ma quella era una festa infausta, da non rievocare. E allora buon Natale, buon anno nuovo, buone feste. Buon tutto, nonostante tutto. Auguri di una buona vita. Magari più “giusta”. Perché no? Benedetto venditore di almanacchi, perché no?