Bianco come Alessandro, rosso come D’Avenia
di Francesco Feola - mercoledì 01 marzo 2017 ore 10:11
Da supplente d’italiano, storia e geografia (in una scuola media di Pisa) non potevo proprio esimermi dal leggere Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori, 2010) di Alessandro D’Avenia che, oltre a fare lo scrittore e lo sceneggiatore, insegna lettere (lui, però, al liceo).
Me ne aveva più volte parlato la mia fidanzata, dicendomi che nel professore del libro c’era un po’ del mio entusiasmo. Poi ho visto che un mio alunno di terza lo stava leggendo. Infine la mia fidanzata si è risolta a prestarmi la sua copia. Insomma, è stato praticamente il libro che mi ha cercato con insistenza, e non poteva trovarmi in un momento migliore, più adatto.
Mi ha fatto sorridere perché in molte situazioni mi ci sono rivisto pari pari. Ad esempio, se all’inizio il sedicenne protagonista Leo descrive i professori come dei vampiri che dopo la scuola si rinchiudono nel loro sarcofago, be’, un’alunna di terza, alla mia proposta per un laboratorio di scrittura creativa, si è inventata una storia nella quale di notte restavo a scuola e mi trasformavo in un lupo mannaro ululante! Eh già: i prof, specie i supplenti, la razza più sfigata di tutte, non hanno una vita loro fuori dalla scuola. No, no.
Poi però la situazione, nel libro così come nella mia esperienza personale, si è ribaltata...
Credo non sia stato facile ottenere lo stile diaristico di un sedicenne ma D’Avenia c’è riuscito, tant’è vero che leggendo ti persuadi che sia Leo a scrivere e che il supplente di storia e filosofia soprannominato il Sognatore sia invece D’Avenia descritto da Leo. Ma in realtà, anche se scommetto che lo avevate già capito, D’Avenia, più che il Sognatore supplente (poi alla fine non così sfigato) è proprio Leo.
Alle volte, anzi, è troppo Leo, nel senso che la verosimiglianza dello stile viene meno quando inserisce nello stile di un sedicenne, tra un rutto e una parolaccia, concetti declinati con uno stile non più suo, oppure riporta con troppa accuratezza le parole del supplente, spiega etimologie dal greco e dal latino (vabbè che Leo fa il classico, la prima liceo, però si capisce subito che è uno studente molto svogliato), o ancora farcisce questa specie di diario che è l’intero libro con citazioni da Dante e in particolare dalla Vita Nova.
Ma questo fa solo sì che ogni tanto ti risvegli dall’illusione e ti ricordi che in realtà non è Leo che scrive, ma è proprio il Sognatore-D’Avenia. Poco male.
A proposito, tutto il romanzo è scritto come una Vita Nova in chiave moderna, dove Leo, novello Dante, s’innamorerà di una ragazza che guarda caso si chiama Beatrice, che si ammalerà gravemente, e Leo canterà, o meglio vivrà questo amore tenero e struggente, supportato dalla sua migliore amica Silvia (la donna dello schermo?).
Sta di fatto che il Sognatore, da semplice comparsa, diventa sempre più coprotagonista, giocando nel mondo di Leo un ruolo sempre più importante. Per poi tornare comparsa, fino quasi a scomparire. Gli altri personaggi (parlo di Niko, di Silvia, dei genitori di Leo o di Beatrice stessa) se sembrano ben delineati, appaiono invece più evanescenti di quanto sembri. Solo quando Beatrice si sente verso la fine dei suoi giorni ti accorgi che è un personaggio davvero importante quanto disperato e commovente. La fanno da padrone, invece, dominando in maniera schiacciante il libro, Leo e il Sognatore. In entrambi, ovviamente, è fin troppo facile riconoscere gli alter ego, anzi l’ego di Alessandro D’Avenia. Ma d’altronde come dargli torto, soprattutto al suo romanzo d’esordio?
Bello l’accostamento cromatico fin dal titolo, preso in prestito dalle Fiabe italiane di Calvino, tra il rosso dei capelli di Beatrice, e quindi il colore della passione, della vita, dell’amore, e il bianco della malattia, la leucemia (da leukos ecc.), e quindi il silenzio, il vuoto, l’annullamento.
E in generale un bel libro (o forse sarebbe meglio dire carino), un libro che dovrebbero leggere in particolare i prof di scuola, e soprattutto quelli datati, come testo obbligatorio per la loro formazione (altro che TFA e “buona scuola”), per capire meglio i loro discenti e per ricordare che più o meno tanto tempo fa anche loro hanno avuto quell’età, con i problemi e le speranze commisurati a quella fase della loro vita; anche se alle volte (o forse proprio per questo) Leo analizza la sua età con troppa lucidità, con troppo consapevole distacco...
Ho letto Bianca come il latte, rossa come il sangue fino all’ultima parola dei ringraziamenti (cosa che mi succede di raro, in genere solo con i libri di Tabucchi), e sono voluto restarci per un po’, con la mente, nell’ebrezza e nella vitalità che mi ha trasmesso questo libro (per poi passare a Si sta facendo sempre più tardi di Tabucchi, autore di cui periodicamente sento un viscerale bisogno).
Una specie di diario, ho detto. Ma non fate come me, non sfogliate il libro fino alla fine quando avete letto solo le prime sessanta pagine, autospoilerandovi il finale, anzi, i finali (ce ne sono almeno tre, diciamo così, ed io sfogliando il libro me ne sono spoilerati almeno due)!
Francesco Feola