CENSIS
di - domenica 22 dicembre 2019 ore 07:30
CENSIS sta per Centro Studi Investimenti Sociali. È un prestigioso istituto di ricerca socio economico italiano fondato nel 1964 dal sociologo Giuseppe De Rita. Ogni anno pubblica un autorevole rapporto sulla situazione sociale del paese. Quello del 2019 è, a dir poco, sconfortante. Piuttosto allarmante. Vi si parla del “furore di vivere” degli italiani che a me richiama alla mente un mix tra “Furore” di John Steinbeck e “Il male di vivere” di Montale. Nel rapporto, tra l’altro, l’espressione è usata con un’accezione vagamente positiva, cioè come piastra di resistenza rispetto ai problemi che affliggono la società italiana: mancanza di lavoro, insicurezza sociale, crisi economica, esaurimento degli ascensori sociali, suicidio della politica. E si teme che questo furore, basato su stratagemmi, adattamenti, sopravvivenze, possa venire meno facendo precipitare del tutto la società italiana. Con la crisi dell’edilizia cade perfino un affidamento esistenziale atavico delle famiglie italiane, nonché dei costruttori, perfino degli speculatori: quello del mattone. E per i piccoli e medi risparmiatori -ma chi sono?- si riduce il ricorso all’investimento nei titoli di Stato, per la paura che, più che Bot, si faccia la botta e per il loro scarso rendimento. Tra l’altro non si capisce se è peggiore la percezione che gli italiani hanno del loro paese o i dati reali del paese stesso. È una rincorsa al ribasso. Cresce al contrario l’ansia che porta il 69% di noi a vedere il futuro come sinonimo di incertezza.
In questo quadro il Censis sottolinea con preoccupazione il rischio che si affermi una retorica dell’uomo forte, che non deve impicciarsi di Parlamento o elezioni e che chiede per sé pieni poteri. Vi ricorda qualcosa? O qualcuno? Oggi guardano a ciò con favore il 48,2% degli italiani. E, scomponendo il dato per classi sociali, il 56,4% delle persone a basso reddito, il 62% degli intervistati meno istruiti e il 67% degli operai. Annota il Censis: “È quasi il ritorno a una Italia post-unitaria quando la politica era riservata ai benestanti, agli antipodi dell'alta intensità ideologica del dopo guerra che vedeva invece, come punta avanzata della richiesta, protagonisti proprio i soggetti meno abbienti”.
E la sorpresa, ma non è proprio una sorpresa, è che a desiderarlo di più sono gli operai, un tempo baluardo delle conquiste della sinistra. Non a caso un amico e compagno operaio mi segnala questo fatto, in preda alla sconforto. La classe operaia, già terreno di conquista della Lega, non va più a sinistra, tantomeno in Paradiso. Va a destra, con buona pace dei sindacalisti diversamente orientati o nonostante loro. Deindustrializzazione, lavoro precario e sottoccupazione ne sono la causa. Fa bene Landini, il segretario della CGIL a richiamare un’alleanza fra governo e sindacati per contrastare lo sbriciolamento sociale, oltreché produttivo, del paese.
Se sommiamo a tutto ciò la crisi della scuola e dell’istruzione, la fuga dei giovani laureati all’estero, emerge che, più che la sicurezza tanto strombazzata a destra come effetto della minaccia delle “invasioni barbariche”, questo è quello che più temono e più affligge gli italiani: la precarietà, l’impoverimento, il venir meno della speranza di futuro di un paese che invecchia. E che sembra resistere nella sua vecchiezza, aggrappandosi alla pensione anticipata. Perché questo non è un paese per giovani. “Anziani piaga della società”, dice l’ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli in tivvù a noi vecchi che ci riguardiamo il pomeriggio la serie. Speriamo ci salvino le Sardine o un ravvedimento della politica della sinistra dal precipitare definitivo della crisi e dall’avvitarsi su se stesso di un tragico conflitto generazionale.
E poi dice che la storia è maestra di vita! C’è da temere piuttosto che sia vero quello che scrive il mio amico Celati, quando s’improvvisa maldestramente poeta, e cioè che “crescendo s’impara un bel niente”. Agli italiani, e anche a diversi europei purtroppo, non sono bastati il fascismo e il nazismo, la guerra, le odiose leggi razziali, i campi di sterminio, l’olocausto. E neanche le dittature comuniste nel mondo. Pensano di aver bisogno dell’uomo forte come soluzione alla crisi della politica e della democrazia. Me l’ha detto un altro operaio che ha incolpato di questo anche l’internazionalizzazione dei mercati. Gli ho risposto che è sempre meglio la peggiore delle democrazie della migliore delle dittature e che, tra l’altro, lui ha una Jeep che se non era per Marchionne... Pur con tutto quello che ci sarebbe da ridire. Ma chissà. Oltretutto la vittoria elettorale in Inghilterra di Boris Johnson, controfigura inglese di Trump, sembra rivelare che nel mondo si affermano i clown, più che gli uomini forti. Ma forse drammaticamente non c’è differenza.
Vedere “Love actually”, come in casa facciamo ogni anno a Natale, utilizzato da “Bojo” per la campagna elettorale nelle vesti di cantante di strada, non avrà più lo stesso significato. Chiedete anche a Hugh Grant.
Tuttavia tra fenomeni sovranisti, populismo ed emergenza democratica con la loro ciclica interazione, una risorsa e una riserva democratica noi ce l’abbiamo: Bruno Vespa, il mitico! Come tradizione esce per Natale “Perché l’Italia diventò fascista”. Natale è quando nasce Gesù e Vespa pubblica il nuovo libro. Un instant book, un libro-panettone, per fortuna con un sottotitolo: “e perché il fascismo non può tornare”, tra parentesi. Questo ci rassicura e ci rincuora, nonostante la citazione di Madeleine Albright, politica e diplomatica statunitense di origine cecoslovacca: "I fascismi non prendono il potere a spallate, ma gradualmente e con il consenso". Come “la banalità del male”. Buona domenica, buona fortuna e buon Natale.
Pontedera, 22 Dicembre 2019