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​Far west

di - venerdì 11 novembre 2022 ore 09:00

In questi mesi ho evitato di scrivere di questo, ma i recenti fatti che hanno portato Pontedera, la mia Pontedera, alla ribalta della cronaca nazionale, mi hanno fatto pensare che possa essere utile discutere insieme di ciò che sta accadendo intorno a noi.

Ad inizio anno scolastico, ha fatto il giro sul web un video in cui un ragazzo veniva aggredito fisicamente a calci e pugni in pieno villaggio scolastico. La scorsa settimana, invece, è stato un altro fatto a destare scalpore, quello di un ragazzo che era andato alla cattedra a prendere in giro il prof che poi lo ha colpito con un pugno.

Fatti che non possono non scuotere l’opinione pubblica.

Io non voglio entrare nel merito di queste singole situazioni, anche perché per poter commentare qualcosa, credo si debbano avere molti più elementi di quelli in mio possesso.

Ma vorrei partire da questi fatti per cercare di fare un discorso più ampio sui ragazzi e sul modo in cui stanno gridando aiuto. Durante la pandemia, sono rimasti chiusi in casa per mesi, con il solo telefono come mezzo di comunicazione con i coetanei. E ci sono stati, la maggior parte ha capito ed accettato. Poi di nuovo catapultati fuori, con corpi in cambiamento e senza il filtro dello schermo. E hanno iniziato a chiedere di essere ascoltati. Magari stando in silenzio, vestendosi in maniera eccentrica, o ascoltando musica che parlasse a loro e di loro. Mi verrebbe da dire esattamente come ho fatto io alla loro età. Ma i tempi erano diversi. I ritmi erano diversi. E la società era meno deresponsabilizzante secondo me.

Oggi è tutto un grande scaricabarile, un trovare sempre il colpevole e non assumersi mai una responsabilità. E lo facciamo, a mio avviso, anche quando pretendiamo che gli adolescenti di oggi, diventino adulti da soli.

Magari da bambini non hanno avuto regole, a dormire nel lettone all’infinito perché sennò si arrabbiano e ci fanno sentire in colpa, possono maltrattarci quanto vogliono perché non vengono mai ripresi su niente, hanno un’agenda più fitta di quella di un manager perché devono fare calcio, danza, inglese, spagnolo, il giocoliere e il corso di cucina, e poi la nonna gli prepara cena anche a vent’anni se i genitori ritardano dieci minuti, perché “poverini, sennò come fanno”. Ecco, li cresciamo così, totalmente inadeguati, ma pretendiamo siano autonomi, in grado di comprendere i limiti, bravi e retti.

Magicamente.

Forse, credo io, dovremmo fermarci a riflettere noi adulti. A sentire un po’ il peso del nostro fallimento anziché puntare solo il dito contro di loro. Che sono frutto nostro. Ma lo dimentichiamo.


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