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giovedì 28 marzo 2024

JAZZ CORNER — il Blog di Leonardo Boni

Leonardo Boni

LEONARDO BONI - Un giovane economista, appassionato di basket che nei timeout coltiva un grande interesse per la musica e per il jazz.

Kenny Dorham - Afrocuban

di Leonardo Boni - mercoledì 03 dicembre 2014 ore 22:49

Ecco finalmente la tromba di Kenny Dorham

Afrocuban non è l'album jazz che ti aspetti. Già dal nome dovremmo essere in grado di capire le influenze che troviamo all'interno di ogni pezzo, ogni traccia, ogni secondo dell'album. Il binomio Jazz-Afro non delude, e con la ciurma capitanata da Kenny si crea un'armonia unica.

Kenny Dorham suona la tromba. E' una tromba delicata, quasi soffocata, ma piena di ritmo, che ben sposa l'hard bop con il ritmo afro. Compone 8/9 dei pezzi, dove sperimenta dei suoni nuovi e geniali per il periodo, siamo nel '55 ragazzi. E le vedute sono ampie.

E' questa la magia del Jazz. Ha dentro di sè la storia della musica. Ogni nota sprigionata è fonte di innovazione. Di ispirazione. E' un pezzo di futuro che viene accennato, aspettando che qualcuno lo colga, per costruirci qualcos'altro. Ma tutto parte da qui. Da una tromba, una percussione, e un contrabbasso.

Qui, la svolta, è Art Blakey alle percussioni, il maestro Blakey. La storia del Jazz praticamente. Da lui sono partiti in tanti, e trovarlo sideliner a Dorham impreziosisce non poco. Blakey si incarna ne "La Villa" in questo album. Un maestro inarrivabile, quasi sicuramente il più importante drummer del periodo. Una bella fortuna per Dorham, avercelo amico.

Possiamo dividere l'album in due parti, dove i primi cinque pezzi sono sperimentali, segnati dalle influenze citate sopra, e con un numero di componenti maggiore, quasi a voler rendere monumentale l'opera. Dannatamente afro, questa parte. Incredibile come l'intreccio tra Blakey e la tromba di Dorham (bassa, strozzata, ma intensa, dove ogni respiro è come un'emozione a sè) sperimenti un jazz che va molto fuori dagli schemi. E' "Afrodisia" ad aprire i giochi. Si capisce subito che aria tira. Più calda, più passionale. Il jazz più nero che ci sia.

La seconda parte è classica, via le congas, via il Blakey più virtuoso, ma dentro un puro hard bop, swingante, in linea con il periodo, di gran classe, come "K.D.'s Motion".

Vorrei concentrarmi però sulla prima parte. La più interessante.

Se si ascolta bene, c'è un pianista che abbiamo trovato di recente, con un discreto talento.. sì.. è proprio Horace Silver, che presta le proprie visioni di Jazz Funk all'opera, facendo di questo lavoro un'altra di quelle ispirazioni utili a Joe Bataan, giusto per citare qualcuno.

La grandezza dell'album sono le percussioni. Non c'è storia. Quando Blakey sale in cattedra, a coordinare le congas e le cowbell, tutto torna, e crea un ritmo inarrivabile, irraggiungibile. Provare per credere in "Minor's Holiday". Unica. Costante.. dove si posa la tromba di Dorham, l'ottimo sax di Hank Mobley, e lì dietro incessante nel suo stile inconfondible, il piano di Horace Silver.

Viene tutto dal cuore in Afro-Cuban. Come l'apertura di "Basheer's Dream". Ma dove siamo? Casa mia a Milano, adesso, sembra Cuba, una calda, secca, strada dell'Havana al tramonto.

Nel '55, questo album, portò qualcosa di diverso. Un'aria calda nel Jazz. Ma non era ancora la Bossanova.. molto più strada, molto più nera. Bellissimo, da non smettere mai di ascoltarlo. Perchè scivola via, muovendosi e muovendoti. 

Leonardo Boni

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