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Attualità mercoledì 22 giugno 2016 ore 18:30

"Sindaca Ceccardi?" No, chiamatemi sindaco

Cecilia Robustelli

Così la pensa la neo eletta a Cascina, ma le altre prime cittadine hanno opinioni diverse. La versione della linguista pontederese Cecilia Robustelli



CASCINA — E' l'uso il vero maestro, diceva uno scrittore cinquecentesco fra i fondatori dell'Accademia Fiorentina, tale Pier Francesco Giambullari. E allora, dopo il recente risultato elettorale che ha visto trionfare molte donne e fra le altre la leghista Susanna Ceccardi nella “rossa” Cascina, sembra più che mai giusto porsi un interrogativo linguistico per restare al passo coi tempi: si dice sindaco o sindaca?

Ma se Ceccardi più volte in campagna elettorale ha ribadito che vuole essere chiamata sindaco, della stessa opinione non sembrano essere le altre colleghe dei comuni pisani. Si va infatti dalla prima cittadina di Capannoli Arianna Cecchini che usa i termini di sindaca e consigliera anche nelle comunicazioni istituzionali alla stampa, fino alla collega di Calcinaia Lucia Ciampi che invece si pone a metà strada, spiegando: "Condivido la battaglia del femminile, ma per quanto mi riguarda ancora non sono pronta ad accogliere appieno il cambiamento, non per mancanza di rispetto nè per inconsapevolezza dell'evoluzione linguistica, ma per un mio personale rimanere ancorata ad abitudini grammaticali e lessicali che vengono da lontano".

La vittoria leggendaria – com'è stata da molti, Lega in primis, definita – della “ragazzetta” dalla maglia verde e delle grilline Raggi e Appendino, inevitabilmente stimola una riflessione politica e culturale. Della ribalta delle donne in un settore finora in gran parte maschile come quello della politica e della necessità di modificare anche il nostro abitudinario uso dei termini legati a questi ambiti, ne abbiamo discusso con la Cecilia Robustelli, pontederese, collaboratrice dell'Accademia della Crusca e docente di linguistica all'Università di Modena e Reggio Emilia.

Professoressa, lei più volte ha ribadito la necessità di cominciare a inserire nel nostro dizionario del quotidiano termini come ministra, sindaca, assessora. Perché finora non venivano usati e perché invece dovremmo iniziare a farlo?
“I nuovi ruoli istituzionali e le professioni prestigiose che vedono oggi protagoniste le donne testimoniano un'innovazione della società dal punto di vista culturale e professionale. E per descrivere una società nuova servono parole nuove: in questo caso serve anche la forma femminile di termini prima usati solo al maschile perché, effettivamente, riferiti agli uomini”.

A molti però questa sorta di adeguamento linguistico alla società in evoluzione non sembra suonar bene...
“In realtà, quello di declinare al femminile i termini è un comportamento adottato comunemente nella vita quotidiana. Parliamo infatti di pasticciera, maestra, ragioniera. Non vedo quindi nulla di male nel dire anche consigliera, sindaca, ministra o chirurga. Anzi. Le obiezioni che vengono fatte al riguardo non hanno senso, possiamo farlo senza alcuna esitazione perché è una nostra normale abitudine. Non siamo noi a imporlo, è la lingua italiana che ci chiede di usare il femminile per definire le donne”.

Eppure, sia nel parlato che nello scritto, sulla stampa così come negli atti amministrativi, l'uso preponderante sembra essere quello del maschile, come se fosse un genere neutro che va bene anche per il femminile. Si può intendere così?
“Non nascondo che in alcuni casi, ambiti e documenti specifici possa sembrare difficile riferirsi in modo paritario a donne e uomini, e per imparare serve un'apposita formazione linguistica. Nell'attesa, è opportuno riflettere sul fatto che il genere grammaticale dei termini che si riferiscono a uomini e donne non si può scegliere liberamente. La lingua italiana, come le altre lingue, assegna il maschile alle persone di sesso maschile e il femminile alle persone di sesso femminile. Una prova? Se dico il professor X in riferimento a una donna evoco in chi mi ascolta o mi legge l'immagine mentale di un uomo, non di una donna. Inoltre, il fatto di affiancare, al plurale, i termini femminili a quelli maschili, fa sì che le donne si sentano incluse nella comunicazione. La televisione che si rivolge a signori e signore o il Papa che parla a fratelli e sorelle, sono la dimostrazione che con un dettaglio linguistico si acquista una diversa capacità di raggiungere le persone stesse”.

Anna Dainelli
© Riproduzione riservata


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