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Spettacoli venerdì 09 luglio 2021 ore 14:50

Anfiteatro pieno per Marco D’Amore

Il celebre attore della serie “Gomorra” ha fatto il pieno di applausi con lo spettacolo “Salvo” all’Anfiteatro Fonte Mazzola di Peccioli



PECCIOLI — Prossimi al finale della rassegna previsto per lunedì 12 luglio con il ‘Candido’ di Toni Servillo, ieri sera quasi 600 spettatori, ormai eletti testimoni della Storia narrata, sono intervenuti alla prima nazionale di “Poco più che persone – Salvo”, il quarto spettacolo dei cinque proposti da FestiValdera.

Un festival che punta sul racconto e sull’omogeneità degli artisti coinvolti: soggetto e drammaturgia di Michele Santeramo, musiche originali di Marco Zurzolo, eseguite dal vivo dallo stesso Zurzolo al sax e da Piero de Asmundis al piano, regia di Marco D'Amore, produzione della Fondazione Teatro della Toscana organizzato da Fondazione PeccioliPer e Fondazione Teatro della Toscana, con il patrocinio dei Comuni di Peccioli e di Pontedera, ed è realizzato con il sostegno di Belvedere spa e Fondazione Pisa.

Attore, regista e direttore artistico del festival, Marco D’Amore porta in scena il personaggio perno della storia scritta da Michele Santeramo e che lega tutti gli spettacoli del cartellone di FestiValdera. Salvo è un bambino, il bambino che la madre Greta (Vittoria Puccini) e il padre Italo (Fabrizio Gifuni), già visti sul palco negli scorsi giorni, hanno abbandonato vendendolo alla malavita impersonata da Angelo (Luca Zingaretti). Quando sale sul palco, il drammaturgo Santeramo spiega ai convenuti cosa è successo e a cosa stiamo per assistere, perché ogni storia, seppure a sé stante, è intrecciata con le altre: “Salvo è il bambino venduto per essere fatto a pezzi. I pezzi del suo corpo devono andare a bambini più meritevoli di vivere. Tante volte in questi mesi di intima scrittura, mi sono chiesto: ‘ma se incontrassi Salvo, cosa gli chiederei?’”. E Salvo fa la sua entrata. Ma non arriva dalle quinte, dal luogo degli attori, arriva dal lato opposto, dalla cavea, emerge tra gli spettatori, scende i gradoni, attraversa l’orchestra e dopo una piccola pausa, quasi un’esitazione, sale sulla scena e va incontro al suo creatore: “Lui ha troppa vita e io troppe domande. Posso solo aspettare e ascoltare il suo racconto” – conclude Santeramo.

Bomber mimetico e cappellino Salvo prende posto in proscenio e inizia: “Ciao! Mi chiamo Salvo ho 9 anni e sono un bambino. Arriva sempre un giorno in cui si resta da soli. La solitudine diventa l’unica compagnia e allora ti racconti storie per stare al caldo”. Eccolo il fulcro: un bambino che racconta la sua storia e la sua storia parla di qualcosa che noi adulti, abbiamo perduto: l’innocenza. 

D’Amore ci prende per mano e ci porta con sé nel viaggio di Salvo, mostrandoci attraverso le parole, i luoghi sconosciuti dove si finisce quando si rimane soli e si cerca un riparo per la propria innocenza: “Bisogna prendere l’innocenza e metterla via, per mostrarla solo a chi se la merita. Per tanti anni ho giocato a far finta che le cose brutte succedessero ad altri. Ognuno ha il suo modo di proteggere l’innocenza. Alcuni modi però non funzionano e io sono rimasto solo. Uno non lo sa mai cosa deve fare per aggiustare la vita. Tutto è possibile e niente è giusto. Tutto è istinto”. L’istinto porta questo bambino a fuggire dal suo destino, quello di essere fatto a pezzi e lo porta a incontrare un altro bambino, Marian: “Vuoi venire in un posto dove tutto si può avverare?”. 

Come un Pinocchio rovesciato, Salvo, si lascia andare al suo istinto ma contrariamente a quello che ci racconta la favola toscana, questa scelta non lo porterà alla rovina, non si sveglierà con le orecchie di somaro per imparare dai suoi errori, bensì punterà alla salvezza. Un bambino di 9 anni scegliendo di sopravvivere, porterà luce dove non c’è e legherà il suo destino al futuro del mondo intero: “Insieme a Marian ho camminato a lungo, attraversato terre, città nuove dove spuntano alberi dal nulla e mani di bambini dai tombini. Ho annusato per capire dove si annida la cattiveria e poi ho seguito Marian e mi sono infilato anch’io nel buco.”

Noi, spettatori-testimoni di tutto sin dall’inizio, noi che abbiamo attraversato la notte con Angelo, sofferto con Italo e toccato gli abissi del dolore con Greta, ora ci infiliamo nel rabbit-hole con Salvo e con lui scendiamo giù attraverso le fogne, giù in fondo in quel ‘posto dove tutto si può avverare’. “Qui ci sono solo bambini, tutti drogati e disperati, tutti stravolti dalla storia senza averne una propria. Si stupiscono vedendomi. Ho un gladiolo tatuato sul polso, come un richiamo al destino che devo diventare ma che ancora non so di essere. 

‘Cos’è un fiore?’ – mi chiedono – ‘Un fiore è quella cosa che nasconde il motivo per cui si nasce ancora bambini’. In questo universo sotterraneo arredato di ‘bambinezza’ per dare radici a fiori nuovi, io posso far nascere sui loro polsi nuovi profumi”. Il gladiolo è un fiore antico, gladiolus che deriva dal termine latino gladius, ossia il gladio, la spada corta in dotazione ai legionari dell'esercito romano la cui forma allungata e appuntita all'estremità, ricorda le foglie del fiore. Questo fiore diventerà il simbolo della tribù di Salvo, un segno di riconoscimento per lui e la sua gente. In questo mondo parallelo che ci ricorda ‘Il signore delle mosche’, i bambini si sono organizzati in una società diversa, dove si collabora per la sussistenza, ci si protegge l’un l’altro, si salva chi è in pericolo e ancora ci si raccontano le storie: “Un bambino comincia a raccontare una favola nera, di ombre cattive che vengono a prendere i bambini schiacciati dalle paure e io capisco che cosa venuto a fare quaggiù. Dicendo questo io scopro chi sono e loro lo scoprono prima di me. Sono una speranza”.

Una tribù, una banda, una baby gang col suo capo, il suo linguaggio, il suo suono. D’Amore sceglie un cambio di ritmo per descriverla; il monologo si fa incalzante, quasi un rap puntellato dalla musica per raccontarci della vita sottoterra, fatta di tatuaggi di fiori sui polsi, di caccia, di sparizioni, dell’amore per la bellissima Sophie, di spose bambine, di rituali, ritorni e festeggiamenti di questi esseri bassi e piccoli e invisibili ai più. Come pipistrelli notturni i bambini escono dalla loro tana buia per trovare da mangiare, poi esausti si posano sui rami di un grande albero a guardare le stelle appesi come ciliegie chiedendosi ‘Ma che sono?’. 

Lo stupore, cugino stretto dell’innocenza si palesa nell’’incontro con la bellezza sotto forma di stelle o di nuvole. Impossibile non evocare alla mente l’inarrivabile dialogo tra Totò e Ninetto Davoli in "Che cosa sono le nuvole?", diretto da Pier Paolo Pasolini: Jago e Otello sono ormai marionette da discarica ma proprio lì, abbandonati in mezzo a un mare di rifiuti, alzano gli occhi al cielo a cercare ancora una volta quell’incontro con la "straziante, meravigliosa bellezza del creato". Totò non vide mai quella scena perché scomparve l’anno prima che uscisse il film ‘Capriccio all’italiana’ (1968) di cui Pasolini girò uno degli episodi.

Salvo è forse davvero salvo? Il dubbio aleggia quando il buio torna. Salvo ha capito che la vendetta che cercava non fa bene ai bambini e anche se non ha perdonato ha fatto in modo che tutti avessero una nuova strada da percorrere: la sua vecchia famiglia e la sua nuova gente. Loro, i bambini, vogliono rimettere a posto le cose e un giorno verranno fuori dalle tenebre con gli occhi pieni di luce perché dal male venga fuori il bene e che dal bene non venga fuori nemmeno un po’ di male. E per farlo “NOI dobbiamo cambiare tutto”.

Salvo ci ha lasciato con una promessa e una pioggia di petali:

“Io vi prometto

non moriranno i fiori.

Sarà per un respiro di vento,

per una lacrima di luce,

per uno sguardo incantato,

non moriranno mai

i fiori.

Verrà buio e verrà

verrà inferno e verrà

ma una mattina

verrà una mattina e verrà

piena di fiori che splendono

sulla risata marcia della miseria.

Io vi prometto

non moriranno

mai

i fiori.”

Elisa Cosci
© Riproduzione riservata


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