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Attualità domenica 01 maggio 2022 ore 07:30

I lavoratori della Piaggio come gli uomini del Rinascimento

In occasione del primo Maggio pubblichiamo alcune pagine de "Il cielo sopra Varramista" il libro scritto da Giuseppe Cecconi e Nesti edito da CLD



PONTEDERA — Nell'officina 8 c'erano i falegnami, i modellisti, i fonditori, i saldatori, i tappezzieri, i verniciatori, i motoristi, c'era di tutto di più. Costituivano un gruppo ben affiatato di persone ferrate e capaci, che da sole potevano costruire un veicolo partendo da zero.

La Piaggio allora era completamente autonoma, faceva per conto suo perfino il pistone del motore, un oggetto in alluminio complicatissimo per le continue deformazioni causate dai cambi repentini della temperatura, che nella camera di combustione supera i mille gradi. Se il pistone si dilata troppo non lavora; se si dilata poco scampanella creando una rumorosità insopportabile, come il martello che batte sull'incudine,

In quel buon tempo antico alla Piaggio ci lavoravano dei tappezzieri che erano la fine del mondo, facevano le selle, i cuscini, facevano di tutto con niente.

C'erano i lattonieri che se gli davi un martello in mano e un foglio di lamiera, realizzavano di sana pianta la scocca della Vespa. La gente non si può nemmeno immaginare come uno, soltanto a picchiare sopra una lamiera, possa farci un parafango, il faro tondo, una sacca, lo scudo, un serbatoio, qualsiasi cosa.

I saldatori lavoravano di cesello, saldavano l'alluminio, la ghisa, l'ottone, l'acciaio, facevano delle cose impressionanti che in nessun'altra parte della terra sapevano fare. Non era un saldare quello, era un'arte di saldare: le giunture dei pezzi sembravano le tracce di scalpello lasciate da Michelangelo sui blocchi di marmo dei Prigioni che sono esposti al Museo dell'Accademia di Firenze. Loro non avevano tempi di produzione, anziché un'ora ci potevano mettere cinque ore, ma quando il lavoro era finito, era finito, non c'era niente da dire.

Ai motoristi bastava ascoltare il rumore dei pistoni per sapere se bisognava registrare qualcosa, come quando Johan Sebastian Bach smontava ed aggiustava con le sue mani le canne e i mantici degli organi, per ottenere un suono migliore.

I modellisti e i falegnami realizzavano la sagoma in legno della Vespa con una verosimiglianza assoluta, come la copia in miniatura della Cupola di Brunelleschi, costruita con pezzi di castagno, e conservata alla stregua di una reliquia nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze.

I fonditori della due ruote erano attenti e precisi nelle colate d'alluminio, paragonabili per bravura agli operai di Benvenuto Cellini quando fece, in un unico getto, la fusione in bronzo a cera persa del suo Perseo.

Per quel che riguardava la parte meccanica, ecco i tornitori, i fresatori, i rettificatori, i carpentieri, i fabbri. I fabbri sapevano realizzare delle cose impressionanti, loro facevano i telai col martello: tutto a freddo, senza bisogno della fucina!

I collaudatori erano bravissimi. Esistevano quelli della produzione e quelli dell'officina Sperimentale. Sapevano smontare e rimontare il motore a occhi chiusi, per poter interpretare in strada pregi e difetti del veicolo.

I collaudatori uscivano ronzando a piccoli gruppi per provare i nuovi modelli, in qualunque stagione, piovesse o non piovesse. Per saggiare meglio il veicolo a volte c'era bisogno di una guida spericolata, ma se prendevano la multa l'Azienda li tutelava pagando per loro. Erano in sintonia completa con la Vespa come se facesse parte del loro stesso corpo, addirittura riuscivano a starci in equilibrio anche da fermi. Sembravano proprio i mitici centauri della Grecia antica.

Poi c'erano i piloti che dovevano testare la tenuta degli assetti di guida anche nelle situazioni più estreme. Per saggiare i pneumatici erano molto adatti i tornanti dell'Abetone. Ma anche usare un'Ape a pieno carico su una discesa, utilizzando la prima come freno motore, era una prova dura che faceva impazzire la lancetta del contagiri.

I piloti migliori partecipavano alle gare di velocità. Impegnandosi allo stremo, la Vespa, che proprio non era nata per questo, riusciva a vincere molte competizioni, battendo marchi famosi tipo la Guzzi o la Benelli.

Giuseppe Cau si dimostrò molto in gamba in queste prove sportive: se lungo il rettilineo del circuito veniva superato da un avversario dotato di un mezzo più potente, immancabilmente in curva lui lo riprendeva e lo scavalcava di nuovo.

Questi successi furono il frutto di un gruppo che ci si dedicò anima e corpo, usando mille furbizie e mille accorgimenti inventati lì per lì. Ad esempio, se le gomme erano troppo rigide riguardo a un certo percorso, con un coltellino svelti sveltile tagliuzzavano per ammorbidirle. Se si rompeva il filo del cambio, trovavano il modo di andare avanti lo stesso.

Alcuni di questi provetti guidatori costituirono la squadra acrobatica, che dava spettacolo con numeri di equilibrismo degni di un circo: riuscivano addirittura a viaggiare in sette su un'unica Vespa. D'altra parte, nei primi anni del dopoguerra, anche la gente comune non disdegnava una guida funambolesca, e sulla Vespa girellavano tranquillamente famigliole al completo, con a bordo babbo, mamma e due bambini. Senza dimenticare i bagagli!

Un veterano che faceva l'assistenza tecnica della squadra corse oggi è quasi centenario, ma porta ancora i segni di quella febbrile attività. La sua mano destra ha gli ossi sporgenti e fuori posto e sembra il ramo contorto di un ulivo, perché ha sforzato troppo i tendini nel furore della tenzone agonistica. Bisognava vederlo con che sveltezza supersonica svitava e riavvitava le parti della Vespa.

Lo chiamavano il bimbo, perché entrò alla Piaggio che ancora portava i calzoni corti. Era apprezzatissimo e benvoluto da tutti per le sue straordinarie capacità manuali.

Quando Corradino D'Ascanio si ritirò in pensione, ogni tanto telefonava in Azienda e se lo faceva mandare a casa sua a Pisa. Andavano nel giardino e gli chiedeva di smontare il motore di una Vespa, o della P400, o di qualche altro complicato ingranaggio.

D'Ascanio tutto concentrato osservava ogni cosa. Stava lì in silenzio, meditabondo, quasi in contemplazione davanti a questi organi meccanici che venivano sezionati e rimossi con la perizia di un chirurgo. Cercava un'ispirazione, un'idea, per apportare qualche modifica migliorativa. Dopo di che questo operaio rimontava tutto quanto.

In quei momenti erano due complici, il braccio e la mente.

A vedere quell'operaio che con tale maestria maneggiava gli attrezzi del mestiere, nel sentire il rumore della chiave che allentava i dadi, o il cigolio delle viti, D'Ascanio si abbandonava alle rimembranze, guardandosi nello specchio del passato. Similmente a quando, in Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Màrquez, nell'ultimo capitolo del romanzo, Aureliano decifra le carte della sua stirpe.

Si ricordava allora di quando a Pepoli aveva inventato un telefono a batterie per parlare con la sua fidanzata. Di un forno elettrico da lui ideato in gioventù, con cui cuocere a puntino il pane e la pasticceria. Di quell'anno in cui aveva lavorato senza spendere un soldo con gli operai di una officina di Pescara a fabbricare il suo primo elicottero, e che in cambio di quella ospitalità aveva ceduto al proprietario Giuseppe Campione alcuni brevetti di macchine agricole.

Ma proprio sulla base di quella esperienza maturata a Pescara, nel 1930 ce la fece a costruire in un hangar di Ciampino il D'AT3 che stabilì tre record mondiali, alzandosi in verticale fino a 18 metri, per poi avanzare per un chilometro, nel tempo di 8 minuti.

Si ricordava della prima volta che vide il prototipo MP5 che con un po' di disprezzo gli operai avevano battezzato col nomignolo di Paperino, perché sembrava proprio un anatroccolo.

Pure a lui parve brutto, e anche disagevole perché bisognava sedercisi a cavalcioni. Inoltre era troppo piccolino, e non dava per niente l'idea di leggerezza e di manovrabilità. Ebbe la stessa identica reazione Enrico Piaggio che, stizzito, aveva scosso la testa in segno di totale e assoluta disapprovazione.

Però, appena aveva disegnato la Vespa, lui ed Enrico Piaggio non ebbero dubbi che era proprio quello che cercavano. Furono folgorati da tanta smagliante bellezza. Come se fosse un'idea universale che esisteva già, oltre le altezze del cielo, nell'iperuranio di Platone. Provarono lo stesso stupore di Ciàula, quando scopre la luna nella novella di Pirandello.

Gli tornava in mente quando fu costruito a Pontedera il primo esemplare della MP6, modellata dal lattoniere Masoni che aveva aggiuntato le parti della scocca a suon di colpi di martello, chiodandole con dei ribattiniancorati. Sembrava una giacca da uomo imbastita dal sarto con i punti lunghi di filo bianco, per essere provata dal cliente.

In cima allo scudo, centralmente, c'era stampigliata, simile alla miniatura di un amanuense medievale, una bella aquila dorata con le grandi ali distese. Quello stemma fu infatti il logo numero uno della Vespa, sostituito di lì a poco dal marchio bianco celeste tradizionale.

L'idea della Vespa gli era venuta in mente d'improvviso, soprattutto per la sua voglia ostinata di levarsi dai piedi il telaio delle motociclette che impone una posizione di guida scomoda, eliminando al contempo la catena di trasmissione che può sporcare i pantaloni del conducente. Così aveva concepito d'istinto, quasi per dispetto, l'invenzione del secolo nel settore dei veicoli: la rivoluzionaria scocca portante, simile al tappeto magico di Aladdin delle Mille e una notte.

Eppure il successo trionfale della sua creazione, che gli valse elogi a non finire in tutto il mondo, non impediva comunque che gli tornasse in mente ciò che successe il 5 agosto del 1952.

Quel giorno, a quell'ora, in quell'attimo, era in auto con l'ingegner Doveri che guidava in una stradina poderale lungo il campo di aviazione accanto alle officine. Ed ecco che a sorpresa, da dietro una cunetta gli si parò davanti l'elicottero PD4 da lui progettato. Si era appena alzato da terra, sfavillante, con le sue eliche possenti, simile a un fagiano che sbuca da un cespuglio all'improvviso sbattendo con forza le ali, per mettersi in salvo da un predatore. Ma poi di colpo era caduto giù, come se fosse stato colpito a morte: lo stesso drammatico destino di Icaro nel suo breve volo, e di Dedalo che assistette impotente alla rovina della sua creatura.

Corradino D'Ascanio chiuse gli occhi, e disperato appoggiò la testa sulla spalla di Doveri, scongiurandolo di dirgli che quel che aveva visto non era vero.

In quell'incidente fu sfiorata una tragedia, però grazie al cielo non ci furono vittime.

Ma proprio in quello stesso momento l'operaio aveva terminato il suo lavoro e gli chiedeva se c'era da fare qualche altra cosa, richiamandolo così alla realtà del presente.

La confidenza fra D'Ascanio e quel provetto operaio derivava da una lunga e quotidiana frequentazione alla Piaggio. Rapporti di lavoro, ma anche rapporti umani.

Come quella volta che D'Ascanio lo convocò e gli disse bruscamente: « Vai in Attrezzeria, fatti dare un bel mazzuolo di legno, il più grosso che c'è, e portamelo di corsa ». L'operaio lesto ubbidì e glielo consegnò. Ma restò a bocca aperta quando vide D'Ascanio brandirlo in aria ed assestare un sonoro colpo a una scatolina di lamiera che andò in mille pezzi. Si trattava di un marchingegno escogitato da lui stesso, che gli permetteva di prelevare soltanto una sigaretta ogni ora.

« È mai possibile che io non possa fumare quando mi pare e piace? », sbottò trionfante il grande ingegnere.

Orbene, erano della stessa tempra dell'operaio di D'Ascanio gli uomini che prima della guerra costruivano gli aerei.

Loro sapevano fare tutto con poco, dato che avevano il mestiere in mano. Da quanto erano avanti, veramente all'avanguardia, spesso si trovavano costretti a inventarsi gli strumenti di lavoro da soli.

Le cose che realizzavano dovevano essere funzionali e costare poco, essenziali e senza fronzoli.

Diventarono poi i personaggi chiave della Vespa. Chi li ha visti all'opera ne è rimasto impressionato, erano figure mitiche, tutti li ammiravano. Vengono ricordati sempre col cognome, come se fosse un marchio di indiscussa qualità, come quando uno dice la Ferrari: lo Sbrana, il Giuntoli, il Del Nista, Fanciullacci, Fredianelli e tanti altri.

Allorché andavano in pensione erano visti e presi dalle officine dell'indotto, dove mettevano a frutto la grande esperienza maturata nella casa madre. Anche da vecchi li chiamavano per delle consulenze nei momenti del bisogno.


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