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Attualità venerdì 22 aprile 2022 ore 18:05

Il Vespa Day e gli anni di Belinda in Piaggio

Belinda Caglieri

Alla vigilia della festa per i 76 anni dello scooter vi proponiamo le pagine del libro di Cecconi e Testi dedicate alla "storica" operaia Belinda



PONTEDERA — In occasione dei festeggiamenti del Vespa Day, che porterà a Pontedera oltre 400 vespisti dall'Italia e dall'Europa per celebrare il brevetto della Vespa, depositato appunto il 23 Aprile 1946, pubblichiamo un brano del libro Il cielo sopra Varramista, scritto a due mani da Lando Testi e Giuseppe Cecconi.

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"Fino agli anni '70, per i Pontederesi l'entrare alla Piaggio era quasi una pratica iniziatica. Belinda con un racconto dai toni teatrali, ci svela questo rito.

Era la vigilia del giorno che sarei dovuta entrare al lavoro. Mi dice il mio babbo: «Mettiamoci a tavola, ora si fa una bella chiacchierata insieme», e chiama la mia mamma e la mia sorella.

Per festeggiare la mia mamma aveva preparato il famoso ciambellone, che era il nostro dolce preferito.

Entravo nel mondo del mio babbo dove lui ci è stato per trent'anni. Gli avevano dato anche una medaglia per la sua lealtà al lavoro. Sulla medaglia c'erano due brillantini, ed egli aveva commentato: «Questi brillantini sono tutto il mio lavoro».

«Mi raccomando Belinda», solo questo mi disse. «Babbo stai tranquillo» risposi io.

Poi si parlò di come mi sarei presentata il giorno dopo. Per il mio babbo dovevo avere la gabbanella nera abbottonata fino al collo e due treccine innocenti da collegiale.

Io avevo diciotto anni, coi capelli biondi lunghi lunghi sulla schiena, perciò, grazie all'appoggio della mamma e di mia sorella, la spuntai, e mi feci una bella coda di cavallo.

Il giorno dopo, il 16 marzo del 1978, sarei entrata nella grande fabbrica!

Ci sono dei ricordi che ti segnano la vita. Quando nel 1966 ci fu l'alluvione ero una bambina. Con una barca giunsero a casa nostra alcuni parenti che erano sfollati dal centro di Pontedera ormai tutto sott'acqua. La mia mamma gli preparò la camera da letto con dei materassi di vegetale buttati per terra.

La mattina dopo il mio babbo si era messo gli stivali di gomma e la vanga in spalla. « Amore, vado alla nostra fabbrica a togliere il fango », mi spiegò. E siccome dovunque c'era l'acqua, passò lungo le verghe della ferrovia che correvano su una massicciata rimasta all'asciutto. Ripensandoci sembrava un partigiano che va alla macchia.

Quella notte dormii poco e la mattina superai i cancelli della Piaggio al suono della seconda sirena. Una guardia mi accompagnò alle Meccaniche, un'altra mi portò alla 2R e lì mi fecero aspettare. C'erano tanti operai che in fila come formiche, si spostavano trafelati di passo svelto. Ero emozionata e credevo che tutto quel trambusto lo vedessi solo io perché ero agitata. Una guardia telefonò ad altre guardie, parlava concitatamente, c'era sconcerto sulla faccia di tutti. Qualcuno mi disse: «Hanno rapito Moro, Moro, Moro».

Mi si accapponò la pelle, e anche oggi solo a pensarci mi vengono i brividi dentro.

Mi disse una guardia: «Signorina stia tranquilla, ora si passa dalla Direzione, gli faccio vedere come si timbra il cartellino e poi torna a casa. Oggi è come se avesse lavorato. Ci vediamo domani».

Io non mi ricordo quel che ho mangiato ieri, ma il 26 marzo, quella data non me la posso scordare. È come quella della nascita dei miei figli.

Dopo un periodo alla 2R, mi chiamarono a lavorare all'asilo aziendale 'Elena Piaggio'. Toccavo il cielo con un dito, mi piaceva la scuola e avevo sempre sognato di fare la maestra, ma le condizioni economiche non me lo avevano permesso..

Dunque mi si aprì un sogno, la mattina aiutavo le insegnanti, e la sera facevo gli straordinari per la pulizia delle aule.

Un giorno fu proclamato uno sciopero e un corteo operaio sarebbe dovuto sfilare per le stradine del Villaggio Piaggio. Dalla Direzione venne l'ordine di tenere le persiane chiuse. Ma io, quando intravidi il mio babbo che marciava alla testa degli scioperanti con un fazzoletto rosso al collo, non potetti trattenermi dall'aprire una finestra e salutarlo. « Ciao babbo », e lui come al solito mi rispose: «Ciao amore». Tutto qui!

Ma ci fu una spiata e fui richiamata dall'Azienda, e rimessa da un giorno all'altro alla produzione.

Quella ingiustizia mi cambiò, e diventai un'agguerrita sindacalista. Ma per fortuna la mia indole mi portava ad essere conciliante, e così cercai il mio riscatto senza acrimonia. Infatti riuscii a prendere il diploma di maestra d'asilo, frequentando la scuola delle suore Mantellate a Pistoia, dove mi recavo nei fine settimana. Ce l'avevo fatta, avevo vinto io!

Sono un'inguaribile ottimista. Per me il famoso bicchiere non è né mezzo vuoto né mezzo pieno, a me sembra invece che trabocchi, perché mi basta poco per essere strafelice.

In fabbrica quando venivo via dal bagno spegnevo sempre la luce, anche se qualcuno mi diceva: «lascia stare, non paghi mica te, paga Piaggio». Oppure se vedevo che un lavandino era sporco di nero, lo ripulivo per benino. Per me la nostra fabbrica era il nostro pane quotidiano.

L'ultimo trasferimento che mi fecero fu al montaggio motori, e di là non mi sono più spostata perché un delegato sindacale è inamovibile.

Ci sono stata quarant'anni, e questo reparto di trecento persone è diventata la mia famiglia. Negli ultimi tempi mi ci trovavo così bene che non mi riusciva più fare la sindacalista. Avevo imparato a parlare con i capi, e a tutto si trovava una soluzione.

Una mattina capitò nel reparto Giovanni Agnelli con tutte le guardie intorno. Io lo vedo e decido di parlargli. Antonella che lavorava accanto a me esclamò: «Oh Belinda, anche se è un padrone è bello». Gli risposi: «Lo vedo che è bello, è bello bello, ma a me interessa parlargli». Perché avevo letto sui Quaderni della Fondazione Piaggio un suo editoriale dove, rivolgendosi proprio agli industriali, li esortava a riprendere l'entusiasmo e la lena degli anni del boom economico.

Quell'articolo terminava con questa frase che mi aveva conquistato: “I marinai genovesi dei secoli passati rivendicavano la libertà di mugugno. Noi industriali questa libertà l'abbiamo esercitata da sempre. Adesso bisogna soprattutto rimboccarci le maniche”.

Ecco volevo dire a Giovanni Agnelli che quel passaggio mi aveva colpito, perché lui invitava i suoi colleghi imprenditori a dare l'esempio.

Qualche operaio mi consigliò di lasciar perdere, ma io quando parto, parto. Mi avvicinai, le guardie mi osservavano. «Che studia questa qui?», pensarono. Conoscendo il mio carattere stavano con gli occhi spalancati. Qualcuno, a mezza voce, disse ad Agnelli chi ero.

«Buongiorno signora» mi fece lui. «Mi fa piacere incontrarla, buongiorno assai. Sono una delegata di fabbrica, che la sento un po' mia, anche se è sua», risposi io. Mentre gli esprimevo il mio apprezzamento per il suo appello agli imprenditori, le guardie che prima erano sbiancate dalla paura si riebbero, e ripresero il colore abituale. Ora anche loro mi guardavano col rispetto che si deve a una Signora.

Quando sono andata in pensione un centinaio dei miei compagni di reparto vollero festeggiare, e portarono di nascosto in fabbrica dei fumogeni colorati da stadio, quelli che fanno i botti. Quando li accesero la confusione era massima, e tutto quel trambusto fece scattare l'allarme di sicurezza. Una sirena cominciò a suonare.

Qualcuno mi disse «Belinda è la Piaggio che ti saluta in pompa magna», ma per me era la campanella di scuola quando finiscono le lezioni. La mia vita con la grande fabbrica terminava lì".

(Dal Libro Il cielo sopra Varramista di Lando Testi e Giuseppe Cecconi edito da CLD)

La copertina del libro di Testi e Cecconi

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