Attualità giovedì 07 luglio 2022 ore 15:17
C'era una volta all'oratorio la fabbrica degli aquiloni
Dopo il primo racconto sull'oratorio Giuseppe Cecconi continua con storie di esperienze che hanno segnato la vita sociale della comunità pontaderese
PONTEDERA — Il mio primo raccontino sull'Oratorio, ha smosso molte cose, suscitando forti sensazioni. Mi ha scritto la moglie del capitano della squadra di pallacanestro Mario Maffei detto Blizze. Il soprannome corretto è Blitz che significa rapido nel terzo tempo, come l'eroe Achille piè veloce.
La sua lettera è struggente, perché rievoca un mondo che credevamo di esserci lasciati alle spalle, e invece è vivo e presente. Poi mi ha cercato per telefono Pierino il giocatore più carismatico. Pieno di emozione mi ha detto che si riconosceva nella descrizione che ho fatto di lui.
Parlare con Pierino è stato come parlare con tutti i protagonisti della Juventina di basket: Ciappi, Meotti, Mannari, Maffei, Cioni, Nassi, Morelli, Bruni, Magnani, Volpi etc. Mi sono allora reso conto di quanto, Pierino abbia influenzato, la mia formazione culturale e il mio immaginario. Perché con lui scoprii, nella mia fanciullezza, che esiste la figura del leader e, inconsapevolmente, da allora ho sempre avuto la massima predilezione per certi personaggi speciali, per i numeri uno.
Durante il sessantotto pisano, tra i tanti istrioni della contestazione studentesca, trovai nel sapientissimo filosofo Cazzaniga una guida umana e politica. Quando insegnavo alle Medie nello storico quartiere di San Frediano a Firenze, avevo individuato in un alunno di nome Sandro Magherini colui che poteva trascinare i suoi coetanei nel riscatto del quartiere che andava inesorabilmente deteriorandosi. Avevo deciso infatti di impegnarmi contro l'abbandono scolastico e le bocciature, e con il suo aiuto misi in piedi un doposcuola popolare, per preparare gli scolari respinti a prendere il diploma di terza media. Quando nel quartiere arrivò la droga, organizzai con la popolazione un comitato di trecento ragazzi contro questo pericolo.
Per alcuni mesi la polverina non circolò nelle stradine di via Camaldoli, via del Campuccio, via del Leone, Piazza Tasso. Questo successo fu merito di un gruppo di genitori dai soprannomi che erano tutto un programma: il Ciuci, il Gaga, Il Ciaba, Schirombo, il Bambino. Omoni grandi e grossi, che avevano partecipato alla Resistenza, e che conoscevano tutti, vicolo per vicolo, casa per casa. Sembravano usciti da quei quadri di Ottone Rosai ambientati in via Toscanella, o dalle pagine dei romanzi di Vasco Pratolini.
Loro conoscevano anche i malandrini, i ladruncoli, i giocatori di toppa, che un mese sì e un mese no entravano nel carcere delle Murate di via Ghibellina. Allora il Ciaba avvicinò a uno a uno gli spacciatori, li guardò bene in viso, e li minacciò che se mettevano ancora piede nel quartiere, lui e i suoi amici li avrebbero sistemati per le feste. Ed aggiunse che se andavano a finire in galera, avrebbero trovato dietro le sbarre qualche sanfredianino pronto ad accoglierli come si deve.
Fatto sta che la droga sparì per molto tempo. Ma poi tornò trionfante, e non ci fu più nulla da fare.
Quando negli anni '90 arrivarono a Firenze i primi immigrati africani, avvennero degli atti di razzismo. Per tutta risposta ci fu uno sciopero della fame in Piazza del Duomo che durò tre giorni e tre notti. Lo organizzò il gigantesco senegalese Fallou Faye. Trecento uomini neri stettero seduti in terra per tutto questo tempo. Anche il Vescovo Piovanelli andò a confortarli. Infine Fallou, dopo aver ottenuto delle assicurazioni dal Sindaco di Firenze e dal Prefetto, chiese ai suoi fratelli di cessare la lotta. Tutti all'unisono, si alzarono in piedi lentamente. Alcuni barcollavano indeboliti da quel digiuno prolungato, sembrava che avessero le gambe informicolite. “Se qualcuno di voi fosse morto, sarei morto anch'io” disse loro Fallou. E il modo ieratico che assunse mentre diceva queste forti parole, mi colpì al cuore, proprio come quando Pierino faceva una delle sue giocate ineguagliabili.
Anch'io dunque ho riflettuto sul mio scritto dell'Oratorio, e mi sono reso conto della complessità di quel tipo di aggregazione umana. Della impossibilità di definire astrattamente un posto che cambiava continuamente fisionomia, e in un attimo diventava un'altra cosa da quel che era stato. Per dirla con una parolona del filosofo Foucault, l'Oratorio era una eterotopia, cioè un non luogo, come una stazione ferroviaria, una nave, un aeroporto.
Lì vigeva la legge del più forte, ed essendoci ragazzi di tutte le età, i più grandi dominavano i più piccoli. Tuttavia, quando alle cinque della sera il prete faceva il suo ingresso per recitare le preghiere, tutti si radunavano intorno a lui in un silenzio assoluto. E faceva una certa impressione vedere dei tangheri che fino a un momento prima imponevano la legge del più forte, promettere all'Altissimo di non recare offesa ad alcuno: mai più e mai poi.
Ma nonostante una conflittualità sempre presente, c'era anche coesione e tolleranza all'Oratorio, e tutti erano accettati. Così Romano (Cavicchi), nonostante la sua balbuzie era tenuto in considerazione e benvoluto da tutti: aveva l'incarico ufficiale di segnapunti nelle partite di basket, custodiva le chiavi delle le stanze dell'Oratorio, aveva perfino una delega speciale da parte del Cappellano per controllare che i palloni del calcio e le racchette del ping pong fossero restituite a fine giornata. D'altronde se qualcuno aveva un difettuccio di carattere, o, ancora peggio, era una schiappa nello sport, bastava un soprannome per mettere le cose a posto.
Così, se qualcuno aveva una pubertà precoce, lo chiamavano cespuglio per la peluria appariscente, altri avevano un soprannome che derivava dai nonni, come sciabolino (quasi un patronimico). Io non ebbi mai nomignoli, ma un ragazzo particolarmente antipatico e prepotente con tutti, mi chiamava illusione, perché ero fissato con la pallacanestro, come se volessi diventare un gran giocatore. Poi, in verità, mi sono illuso per tutta la vita di poter migliorare il mondo.
Mentre io avrei dato tutto per emergere nel basket, c'era invece Alessandro Nassi che avrebbe potuto giocare tranquillamente in prima squadra, senza sforzo alcuno. E se avesse voluto, poteva diventare un fenomeno nel ping pong. Anche a palla a volo schiacciava che era una meraviglia. A calcio dribblava come un fuoriclasse. Perfino con le carte era un campione. Ma il Nassi, con un atteggiamento un po' aristocratico, manteneva un certo distacco da ogni disciplina sportiva, si teneva alla larga dagli impegni agonistici troppo stringenti e troppo ripetitivi.
All'Oratorio a volte, per qualche mese, capitavano anche degli adulti un po' in su con l'età. Magari qualcuno che aveva perso il lavoro e non sapeva dove sbattere la testa, regrediva e veniva ad ammazzare il tempo giocando come se fosse stato un ragazzetto. Anche in questi casi nessuno che lo giudicasse: massima tolleranza.
Il campo di pallacanestro era divisa da una tribunetta di cemento da quello di calcio.
Era quest'ultimo uno spazio angusto, circondato da alti muri. Oggi ci praticherebbero il calcetto tre contro tre, allora c'erano squadre di undici, l'una contro l'altra armata.
Una volta mi recai nel carcere Don Bosco di Pisa per assistere coi reclusi alla proiezione di un filmato su Don Milani (l'evento era stato organizzato dalla Scuola Normale di Piazza dei Cavalieri). Lì vidi i detenuti che facevano una partitella a pallone in un cortile chiuso, del tutto simile al campetto dell'Oratorio.
Il calcio all'Oratorio era lo sport numero uno, più popolare e meno elitario del basket. I muri perimetrali fungevano da dodicesimo giocatore, erano l'uomo in più, perché facevano da sponda alla palla, e permettevano perfette triangolazioni. Le squadre venivano formate dai due capitani che sceglievano a turno ora l'uno ora l'altro ragazzo. Se nessuno ti sceglieva non giocavi. La formazione che perdeva veniva eliminata e ne subentrava un'altra.
Qualche volta si fronteggiavano gli adepti dell'Azione Cattolica contro quelli degli Scaut, che all'Oratorio avevano le loro sedi. Anche il prete, ogni tantotirava quattro calci, Don Giorgio sicuramente no, forse Don Emilio. Per non inciampare correndo, con le mani si alzava su fino al ginocchio la lunga tunica talare,
Esisteva tuttavia una formazione di bandiera che partecipava a un campionato contro altre formazioni parrocchiali della Valdera. Bravo e corretto era in difesa il Nencioni, gran centrocampista Sergio Romiti. Quando veniva la squadra del Ponsacco c'era un certo Luciano Chiarugi che spopolava, come avrebbe poi spopolato nella Fiorentina e nel Milan.
Ma un giorno si presentò un gruppo di giocatori che si chiamavano I Ribelli. Erano quei ragazzi di Pontedera a cui i loro babbi anticlericali avevano vietato di frequentare l'Oratorio. Li allenava un certo Ceccarelli, un uomo conosciutissimo perché figlio del venditore di leccornie (caramelle, liquirizie, mentine) che la domenica piazzava un banchetto davanti alla chiesa, deliziando i ragazzi all'uscita dalla funzione religiosa: affamatissimi per il digiuno praticato per fare la comunione!
Il Ceccarelli era dunque un coach laico, ed era affiancato nella sua funzione tecnica da Romano (Cavicchi).
La squadra dei Ribelli incuteva paura, sembrava mossa da ragioni ideologiche antagoniste, vi militavano ragazzi che non avevano mai messo piede all'Oratorio per cui nessuno conosceva il loro stile di gioco, e le loro caratteristiche agonistiche. A rafforzare questa immagine di novità c'era in attacco anche Fabio, l'unico ragazzo nero che viveva a quei tempi a Pontedera, precisamente nella zona di Oltrera. Infatti il Ceccarelli aveva fatto proselitismo soprattutto nei quartieri periferici lontani dal centro storico.
Fra I Ribelli c'erano molti figli di proletari e sottoproletari, ma il loro capitano era lo studente Mauro Tosi, che poi sarebbe diventato un Medico. Avevano un portierone che si chiamava Giannoni, il quale usava i guanti di pelle da professionista, e si lanciava in parate spettacolari. Questa era una novità assoluta per l'Oratorio, perché il ruolo del portiere non era mai stato considerato importante. Chi andava in porta era uno che non sapeva calciare. A volte, con le buone o le cattive, veniva imposto a qualcuno di stare fra i pali, magari per un tempo solo, e poi veniva sostituito da un altro volenteroso.
Inoltre I Ribelli sfoggiavano una maglia sempre pulita, perché la mamma del Ceccarelli, dopo ogni partita le lavava perbenino
D'estate nel campo di basket veniva piazzata una rete per la palla a volo. La palla a volo era uno sport che avevano importato a Pontedera gli studenti che frequentavano il Liceo Scientifico Ulisse Dini di Pisa. All'epoca questo Liceo non esisteva a Pontedera.
Per chi sa mai quale motivo, a Pisa il voley era molto praticato, e la pallacanestro quasi sconosciuta. Tant'è che nel tradizionale torneo scolastico di basket, vinceva sempre l'Istituto dove c'erano dei cestisti pontederesi. L'Iti per molti anni trionfò con Morelli, Boschi, Marinai, e Antonello Pistolesi, e quando loro finirono gli studi vinse il mio Liceo, dove io ero il capitano.
Dunque all'Oratorio si praticava una palla a volo posticcia, senza infamia e se senza lode. A volte le squadre erano più numerose del consentito, si poteva arrivare a dieci contro dieci. Ma anche di più. Se toccavi la palla due volte era già qualcosa. L'unica stella era Marcello, il quale, da fermo, a piè pari, senza sforzo apparente, riusciva a librarsi nell'aria ad altezze impressionanti, per poi prodursi in grandi schiacciate. Aveva le ali ai piedi come il dio Ermes, la sua elevazione era perfetta, paragonabile nella sua essenzielità a una suite per violoncello di Johan Sebastian Bach.
Poi successe una rivoluzione. Cominciò ad allenare un certo Claudio Piazza, uno studente universitario di Chimica che abitava al Villaggio Piaggio. Lui si circondò di una decina di ragazzi che, grazie a innovativi sistemi di preparazione, si irrobustirono alla svelta, e ogni giorno crescevano a vista d'occhio. Facevano esercizi coi pesi, sedute di riflessioni psicologiche per aumentare la concentrazione, praticavano vita di gruppo, andavano a passeggiare sul Corso tutti insieme con il mister Piazza al loro fianco. Erano più alti della media, slanciati, facevano gruppo, uniti come collegiali, camminavano alteri, a testa alta, simili agli allievi della Accademia Navale di Livorno. Anticipavano di qualche anno l'innalzamento della media di altezza degli italiani, e la loro omologazione somatica e culturale: un cambiamento antropologico epocale.
Piazza pretendeva che i suoi giocatori non trascurassero gli studi e che avessero buoni voti, perché crescessero in un ambiente familiare sereno. Diventarono così supereroi, conquistando tutti i trofei, guidando per anni la Nazionale di voley.
All'Oratorio c'era anche un cinema. Il cinema Roma. Era una grande stanzone privo di finestre, con una platea da cento persone e una galleria da venti. Sembrava il Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Ogni sabato e domenica pomeriggio c'era un film.
Una volta dettero Peter Pan. Fu un successone. Per contentare il pubblico troppo numeroso, organizzarono molte proiezioni, una di seguito all'altra. Quando toccò a me, seduto al buio in quell'ambiente chiuso, mi sembrava di stare nella grotta dei pirati. I ragazzi mangiavano le seme che mordicchiavano senza sosta coi denti, digrignandoli, per togliere le bucce. Chi biascicava la ciringomma, aumentava vertiginosamente il ritmo della masticazione per il turbamento, quando il coccodrillo stava per mangiare Capitan Uncino. Quella scena metteva addosso a tutti una certa paurina.
Ma per fortuna c'era Peter Pan. Grazie alla polverina magica di Campanellino lui volava libero nel cielo infinito senza timore alcuno. Proprio come volava Pierino quando si produceva nei suoi magnifici sottomani per andare a canestro, come volava la palla lanciata da Mario Maffei, che inesorabilmente sarebbe andata a finire dentro il cerchio di ferro, gonfiando la retina. Come volava Paolo Mannari mentre stava sospeso in aria una vita, cercando il compagno meglio piazzato a cui passare il pallone.
Peter Pan volava come volava il grande campione Mauro Galli quando, dopo aver rinviato una palla lontana dal tavolo da ping pong, con un balzo felino era già pronto a ribattere una beffarda palla sotto rete. E se in quel momento il Galli, come succedeva sovente, stava allenandosi con Riccardo Fogli che era un campioncino di quello sport, ecco che da un momento all'altro si sarebbe potuto vederlo prendere il volo verso il suo successo di grande cantante. Anche lui elegante e slanciato al pari di Peter Pan. Come un aquilone di carta portato in alto dal vento.
Giuseppe Cecconi
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