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RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

A teatro a teatro !

di Marco Celati - mercoledì 12 aprile 2017 ore 08:38

Sono stato al Teatro Era con l'Angela e la Chiarina a vedere "Il Nullafacente" di Michele Santeramo, per la regia di Roberto Bacci. Sono in pensione, non faccio più un cazzo. "Tengo 'na voglia, 'na voglia e fa...niente", cantava Enzo del Re. Così mi sono detto questo spettacolo fa per me. Anzi, andrò anche a "Prima della pensione" di Thomas Bernhard, in programma per metà marzo. Così resto in tema. Anche Roberto Bacci è pensionato, che c'entra, ma lui è un artista.

Nell'interpretazione dell'autore, Michele Santeramo, il Nullafacente, è di una delicatezza che tocca il cuore, il cuore nella testa. Ha scelto di vivere senza fare niente: è la sua ricetta per la serenità, se non della felicità. In un mondo in cui tutti si affannano e faticano per produrre e consumare, vivere con il mito dell'efficienza, della ricchezza e della performance, lui ha deciso di essere inefficiente, campare con poco, consumare meno, evitare la fatica, lasciare che la natura faccia il suo corso. Affetto da oblomovismo, ma è meglio dire "seguace" della sindrome di Oblomov, ha una moglie malata, interpretata con grande compostezza da Silvia Pasello. "Fortunatamente" si tratta di un male incurabile, così il marito non deve far niente per cercare di guarirla e confida che pure lei non faccia niente, si limiti a vivere, eviti anche di morire. Quando lei si sente male e giace, lui non si scompone, né si muove: se non la soccorre non sa se è morta e può conservare la speranza che ancora viva. Sembra il paradosso del gatto di Schrödinger, mi dice la Chiara: un esperimento mentale di fisica per cui un gatto può essere contemporaneamente vivo o morto. Troppo faticoso per me. Il Nullafacente intanto se ne sta, i soldi per l'affitto per cui si danna la vita il comico proprietario di casa, le cure che invoca l'ansioso fratello della moglie, le medicine che richiede il medico, appassionato e deluso, sono solo noiose e inutili complicazioni dell'esistenza. Solo agitate e alla fine inutilmente dagli altri personaggi che compongono e tengono bene la scena: rispettivamente Michele Cipriani, Francesco Puleo e Tazio Torrini. A volte gridano troppo, rispetto alla vita normale, ma deve essere l'effetto del teatro. O forse devono farlo, in contrasto alla rassegnata pacatezza degli altri protagonisti.

Roberto Bacci e la Fondazione Pontedera Teatro avevano già rappresentato l'inedia di Oblomov, mettendo in scena il nichilismo esistenziale che caratterizza il personaggio del romanzo di Ivan Gončarov. Il Nullafacente segue questa direzione, rifiuta il nostro modo di vivere, sceglie la filosofia dei cinici che teorizzavano l'atarassia, il rifiuto delle passioni, delle bramosie e delle ricchezze? Non saprei. A un certo punto dello spettacolo mi sono immedesimato nel protagonista, mi sono alzato da quel posto in prima fila che mi imbarazza, perché gli attori ti vedono, ti scrutano, si accorgono di te, se segui, se capisci o no, se ti piglia la cascaggine. Mi dormono i sensi, diceva mia nonna Crelia, ma sento. Così mi sono alzato. C'era la poltrona dell'attore in scena, era libera e mi sono seduto lì, in contemplazione. Il teatro sperimentale non deve coinvolgere gli spettatori? La scena era in penombra, al Nullafacente avevano staccato la luce -è un effetto collaterale, se non paghi le bollette- nessuno mi vedeva. Mi sono tolto la protesi dei denti, vulgo dentiera. Mi tortura, è faticosa come le carote da prendere al mercato degli avanzi e dure a mangiarsi, dice, giustamente, il Nullafacente. Mi sono rilassato. Viene voglia di non fare niente. Tutto questo odio cortese, questo mondo incomprensibile e sbagliato. C'è la scissione del PD e molti chiedono che fare: e se non facessimo niente?

Poi è arrivata una musica: era una canzone che ricordavo, suonata in modo strano, diavolo di un Ares Tavolazzi! Ma la sapevo. Ecco! È quella di Sergio Endrigo che fa: "c'è gente che ama mille cose e si perde per le strade del mondo, io che amo solo te, io mi fermerò e ti regalerò quel che resta della mia gioventù". La cantava il mio babbo alla mia mamma. Ero piccolo. Io non ti perderò, faceva. La mamma morì giovane e mio padre dopo. La vita è faticosa, la morte lo è. Poi ho visto la Silvia stendersi sul tavolo e morire. La sua gemella Luisa, che debuttò a teatro interpretando la più bella morte mai vista, se ne è andata, non è molto. Come deve essere interpretare la morte? Difficile come la vita? Alla fine Santeramo, che le sentiva il cuore nella testa con un tocco leggero, ha sorriso triste. Applausi a scena aperta, tre chiamate. Angela mi ha tirato una pedata, scuotendomi dal consueto torpore, abbiamo ripreso le nostre cose, un po' imbarazzati e smarriti come sempre e siamo andati. Ho abbracciato Roberto. Gli ho detto, uno spettacolo delicato. Ma chissà se era la parola. Chissà se gli ha fatto piacere, forse avrei dovuto aggiungere almeno un avverbio, "drammaticamente" delicato. Lui è un regista che non va mai in scena alla fine con i suoi attori. Sembra refrattario agli applausi oppure fa parte del personaggio o del genio. Per fortuna non sono un esperto, né un critico e non devo recensire niente. Mi deve piacere o no. Mi è piaciuto, molto. Ma m'imbarazza dirlo, conoscere gli artisti. È faticoso dire; non sono preparato. Preferisco non farne di niente. Pensare, scrivere semmai. Rappresentare sé stessi o altri da sé. A chi mette in scena le cose, i paradossi dell'essere o non essere, rappresenta i saperi e l'inedia del mondo va la nostra riconoscenza.

Pontedera, 4 Marzo 2017

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati